Primo soccorso: la comunicazione al SSR per aziende del gruppo A

La norma sul primo soccorso preve che le aziende del gruppo A comunichino la classificazione al servizio sanitario regionale. Come procedere?

La normativa di riferimento per la gestione del primo soccorso in azienda è il Decreto Ministeriale 388/03. Il decreto distingue le aziende in gruppo A, B o C e prevede differenze nelle dotazioni di primo soccorso, nei contenuti e nella durata dei corsi di formazione per gli addetti al primo soccorso e, per le aziende del gruppo A, prevede l’obbligo di comunicazione al servizio sanitario regionale (SSR) della classificazione. Ma come procedere?

Il decreto 388/03 distingue le aziende in gruppo A, B o C e prevede differenze nelle dotazioni di primo soccorso.

Quali sono le aziende del gruppo A?

Prima di tutto una sintesi delle 3 categorie di aziende appartenenti al gruppo A:

  1. centrali termoelettriche, impianti e laboratori nucleari (artt. 7, 28 e 33 del D. L.vo 230/1995), aziende estrattive e attività minerarie (D. L.vo n. 624/96), lavori in sotterraneo (DPR n. 320/56) e aziende per la fabbricazione di esplosivi, polveri e munizioni classificate a rischio di incidente rilevante (art. 2 D. L.vo 334/1999);
  2. aziende o unità produttive con oltre 5 lavoratori appartenenti o riconducibili ai gruppi tariffari INAIL con indice infortunistico di inabilità permanente superiore a quattro;
  3. aziende o unità produttive con oltre 5 lavoratori a tempo indeterminato del comparto dell’agricoltura.
Una sintesi delle 3 categorie di aziende appartenenti al gruppo A di primo soccorso.

Un’azienda con più sedi territoriali dovrà fare la valutazione per ogni sede e le diverse sedi potrebbero ricadere in gruppi diversi a seconda dell’attività che vi si svolge.

Per le aziende o unità produttive con lavoratori iscritti con più voci di tariffa appartenenti a diversi gruppi, si deve calcolare la somma di lavoratori iscritti a voci riconducibili a gruppi di tariffa con un indice superiore a 4. Lo stesso criterio si applica per l’azienda o unità produttiva che assume lavoratori stagionali o “atipici” anche per brevi periodi.

Che cosa bisogna comunicare? A chi?

Il decreto prevede che sia il datore di lavoro, sentito il medico competente (nei casi in cui ne è prevista la presenza), a identificare il gruppo di appartenenza dell’azienda o dell'unità produttiva e, qualora di gruppo A, invii comunicazione all’Azienda Sanitaria Locale territorialmente competente.

Il decreto prevede che sia il datore di lavoro, sentito il medico competente (nei casi in cui ne è prevista la presenza), a identificare il gruppo di appartenenza dell’azienda o dell’unità produttiva e, qualora di gruppo A, invii comunicazione all’Azienda Sanitaria Locale territorialmente competente.

La modalità di comunicazione e i suoi contenuti sono definiti dalle regioni, per cui il destinatario della comunicazione potrebbe essere il Servizio di Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro delle ATS/ASL/USSL o anche la centrale del 118 territorialmente competente.

Tre esempi per la Lombardia

Nel caso della provincia di Bergamo è disponibile un modulo compilabile online per effettuare la comunicazione di appartenenza al gruppo A di primo soccorso.

Nel caso della provincia di Bergamo è disponibile un modulo compilabile online che richiede i seguenti dati:

  1. Cognome e nome del Legale Rappresentante;
  2. Nome della Ditta;
  3. Indirizzo della sede operativa o legale;
  4. Telefono e un indirizzo di posta elettronica (e-mail);
  5. Descrizione sintetica dell’attività;
  6. Voce di tariffa Inail;
  7. Numero totale di addetti;
  8. Tipo di organizzazione del lavoro: giornata, 2 o 3 turni;
  9. Categoria di appartenenza (AI – AII – AIII)
  10. Numero dei lavoratori incaricati delle misure di Primo soccorso.

Gli stessi dati vengono richiesti dall’ATS di Città Metropolitana, che comprende Milano (città, Legnano – Magenta e Melegnano – Martesana e ) e Lodi e non mette però a disposizione modelli o portali online.

Nel caso di Brescia, si deve utilizzare un modulo scaricabile da compilare a inviare a mezzo PEC.

Nelle altre aree territoriali?

Fare riferimento all'azienda sanitaria territorialmente competente per avere informazioni in merito a contenuti e modalità di trasmissione della comunicazione può essere la prima strada da percorrere. La seconda è quella di chiedere al proprio consulente.

Fare riferimento all’azienda sanitaria territorialmente competente per avere informazioni in merito a contenuti e modalità di trasmissione della comunicazione può essere la prima strada da percorrere. La seconda è quella di chiedere al proprio consulente. Insomma a quelli che fanno il mio lavoro… o proprio a me!

Come fare e quando aggiornare la valutazione del rischio stress lavoro-correlato?

Nel novembre del 2010 la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro ha elaborato le linee guida per l'esecuzione della valutazione del rischio stress lavoro-correlato.

Il Testo Unico Sicurezza (D. L.vo 81/2008 e ss.mm.ii.) obbliga i datori di lavoro a valutare e gestire il rischio stress lavoro-correlato al pari di tutti gli altri rischi. Nel novembre del 2010 la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro ha elaborato le linee guida per l’esecuzione della valutazione del rischio stress lavoro-correlato, e a gennaio 2012 il lavoro del Coordinamento Tecnico Interregionale della Prevenzione nei Luoghi di Lavoro ha fornito le prime indicazioni in merito alla frequenza di aggiornamento (lettera G del documento).

La sintesi del metodo della Commissione consultiva

La valutazione si articola in due fasi: una necessaria (la valutazione preliminare); l’altra eventuale, da attuare nel caso in cui la valutazione preliminare rilevi elementi di rischio da stress lavoro-correlato (esito positivo) e le misure di correzione adottate a seguito della stessa dal datore di lavoro si rivelino inefficaci.

In pratica:

  1. fase 1 di rilevazione di dati oggettivi e verificabili, da raccogliere eventualmente tramite delle liste di riscontro, non in relazione ai singoli lavoratori ma a gruppi omogenei;
  2. fase 2 (valutazione approfondita) finalizzata alla valutazione della percezione soggettiva dei lavoratori con metodi e strumenti come questionari, interviste o anche gruppi di lavoro specifici (focus group), da mettere in atto qualora le misure di prevenzione non risultino efficaci.

Una soluzione condivisa e riconosciuta per effettuare la fase 1 è quella messa a disposizione da Inail, anche attraverso una specifica piattaforma online. La piattaforma non è sempre disponibile, ma è comunque possibile fare riferimento alla pubblicazione “La metodologia per la valutazione e gestione del rischio stress lavoro-correlato“, che in appendice riporta le tabelle per la raccolta dati e, nel capitolo “Lista di controllo“, descrive in modo dettagliato come effettuare i calcoli per arrivare alla determinazione del livello di rischio.

Non esiste un'indicazione di legge ulteriore a quella dell'art. 29 del Testo Unico Sicurezza, per cui la valutazione del rischio stress lavoro-correlato dovrebbe essere rielaborata nel termine di 30 giorni in caso di modifiche del processo produttivo o dell'organizzazione del lavoro che risultino significative per la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Ogni quanto va aggiornata la valutazione del rischio stress?

Non esiste un’indicazione di legge ulteriore a quella dell’art. 29 del Testo Unico Sicurezza, per cui la valutazione del rischio stress lavoro-correlato dovrebbe essere rielaborata nel termine di 30 giorni in caso di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro che risultino significative per la salute e la sicurezza dei lavoratori.

Il riferimento più esplicito e ormai riconosciuto è quello delle indicazioni del Coordinamento Tecnico Interregionale della Prevenzione nei Luoghi di Lavoro che parla di:

  1. aggiornamento biennale se la valutazione preliminare ha dato esito negativo o le misure correttive sono risultate efficaci;
  2. monitoraggio dell’efficacia delle misure correttive poste in atto, secondo una tempistica che deve essere specificata nel documento di valutazione del rischio.
Rispetto a chi sostiene che, per dare evidenza dell'aggiornamento biennale della valutazione, sia sufficiente redigere una dichiarazione in merito all'assenza di variazioni degli indicatori, faccio presente, in particolare a chi fa riferimento al metodo Inail, che tale scelta risulta discutibile.

Rispetto a chi sostiene che, per dare evidenza dell’aggiornamento biennale della valutazione, sia sufficiente redigere una dichiarazione in merito all’assenza di variazioni degli indicatori, faccio presente, in particolare a chi fa riferimento al metodo Inail, che tale scelta risulta come minimo discutibile considerato che:

  1. la piattaforma Inail richiede di specificare se si tratti di prima valutazione del rischio o di aggiornamento della valutazione in fase di compilazione;
  2. i criteri di valutazione assumono valori differenti in funzione dell’andamento dei dati nel tempo, per cui è sempre necessario ripetere l’inserimento dei dati nella lista di riscontro e ricalcolare il livello di rischio finale.
Il metodo proposto dalle linee guida della Commissione consultiva permanente è considerata la "fatica minima" da compiere per attuare l’obbligo di valutazione e un'indicazione utile per affrontare un tema ampio e delicato. Non si è però vincolati al suo utilizzo.

Altre soluzioni

Il metodo proposto dalle linee guida della Commissione consultiva permanente è considerata la “fatica minima” da compiere per attuare l’obbligo di valutazione e un’indicazione utile per affrontare un tema ampio e delicato. Questo significa però che non si è vincolati a questo metodo per eseguire la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Al contrario i datori di lavoro che lo ritenessero opportuno o necessario potranno adottare soluzioni alternative, avendo cura di dettagliare nel proprio DVR tutte le scelte effettuate per adempiere all’obbligo.

La registrazione della verifica dei DPI

Il datore di lavoro deve consegnare i DPI e mantenerli in efficienza. Ecco qualche consiglio pratico per impostare l'attività con semplicità.

Non è sufficiente che il datore di lavoro fornisca i DPI (Dispositivi di Protezione Individuale) ai lavoratori, deve anche mantenerli in efficienza mediante “la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante“. Questo significa:

  1. informare i lavoratori su come utilizzare, conservare e pulire i DPI e anche su come richiederne di nuovi;
  2. fare una verifica dei DPI, e non solo di quelli di terza categoria.

Ecco qualche consiglio pratico per impostare l’attività di verifica in modo semplice ed efficace.

Scadenza dei DPI

Il primo aspetto da verificare è l'eventuale scadenza dei DPI: gli esempi tipici sono gli elmetti, che hanno scadenza di 5 o 7 anni a seconda del materiale con il quale sono realizzati, e i DPI anticaduta, che hanno invece scadenza decennale.

Il primo aspetto da verificare è l’eventuale scadenza dei DPI: gli esempi tipici sono gli elmetti, che hanno scadenza di 5 o 7 anni a seconda del materiale con il quale sono realizzati, e i DPI anticaduta, che hanno invece scadenza decennale. L’eventuale scadenza è riportata sull’etichetta o sul corpo del dispositivo: è necessario verificare i requisiti della fornitura prima di consegnarla ai lavoratori, prendendo nota della scadenza.

La scadenza viene espressa in forma di mese e anno di scadenza oppure come clessidra contenente il numero corrispondente agli anni per i quali il dispositivo può essere utilizzato, posta a fianco della data di fabbricazione. La scadenza si calcola infatti dalla data di produzione e non dalla data di acquisto o di messa in servizio (consegna) del dispositivo.

La scadenza non equivale sempre alla data di obbligo di dismissione del DPI, ma può indicare la data entro la quale il dispositivo deve essere sottoposto a revisione a cura del fabbricante o di personale competente, come nel caso dei DPI anticaduta. L’aspetto essenziale è non considerare la data di scadenza come indicativa e pensare che un DPI mai utilizzato o utilizzato solo saltuariamente possa essere mantenuto in servizio: la scadenza è tassativa.

Il modo più semplice per gestire la scadenza dei DPI è quella di predisporre un registro, magari con un file excel: un foglio excel per ogni tipologia di dispositivo (ex. elmetti, imbragature, cordini, APVR), e per ogni dispositivo riportare i dati relativi al lavoratore che lo ha in dotazione e la relativa data di scadenza.

Oltre al controllo della scadenza, la verifica dei DPI richiede altri due tipi di controllo: prima dell'uso e una verifica periodica.

Verifica prima dell’uso e verifica periodica

Oltre al controllo della scadenza, la verifica dei DPI richiede altri due tipi di controllo:

  1. prima dell’uso, da parte di ogni singolo lavoratore, che deve accertarsi che il dispositivo non presenti anomalie evidenti, tagli, rotture;
  2. una verifica periodica, in linea di massima annuale, da parte di un soggetto competente o da parte del fabbricante.

Il soggetto competente può essere il personale di un’impresa specializzata, diversa dal fabbricante, o anche un addetto interno all’impresa proprietaria del dispositivo. In ogni caso si deve essere in grado di dimostrarne la competenza che comprende (norma EN 365):

  • la capacità di identificare e valutare i difetti;
  • la conoscenza degli interventi necessari per correggerli;
  • la capacità tecnica e la disponibilità delle risorse per metterli in atto.

La scadenza della verifica periodica può essere aggiunta al registro in excel delle scadenze dei DPI, in modo da non moltiplicare i documenti e da avere tutte le scadenze sotto controllo con un colpo d’occhio.

Come verificare guanti e occhiali di protezione che i lavoratori cambiano con maggiore frequenza? E le mascherine filtranti e gli otoprotettori?

Come verificare i DPI di maggiore utilizzo?

Come verificare guanti e occhiali di protezione che i lavoratori cambiano con maggiore frequenza? E le mascherine filtranti e gli otoprotettori? In questo caso la semplice registrazione della riconsegna periodica dei DPI rappresenta la dimostrazione del mantenimento in efficienza dei dispositivi, senza necessità di registrazioni ulteriori. Quindi meglio non accontentarsi della registrazione della consegna dei DPI in fase di assunzione, ma fare in modo che i lavoratori sottoscrivano la ricezione dei dispositivi a ogni nuova fornitura.

A chi chiedere per la verifica dei DPI?

La prima risorsa è il venditore, che potrebbe avere contatti con il produttore (o essere il produttore) o con imprese specializzate.

Per quanto riguarda i DPI anticaduta si può chiedere alle imprese che si occupano della verifica trimestrale di catene e fasce di sollevamento. Non tutte lo fanno, ma chiedere non costa nulla, soprattutto se è già un fornitore.

Per quanto riguarda i DPI delle vie respiratorie, è probabile che chi si occupa di forniture antincendio offra anche il servizio di verifica dei DPI per le vie aeree. Come per i DPI anticaduta non è una certezza, ma una possibilità da accertare.

Il divieto di assunzione di alcol sul lavoro

Bisogna valutare e gestire attivamente il divieto di assunzione di alcol sul lavoro. A partire dai casi di ragionevole dubbio di ubriachezza.

La normativa ha introdotto a partire dal 2001 il divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche nelle attività lavorative a elevato rischio di infortunio o per la sicurezza, l’incolumità o la salute anche di terzi. Questo richiede non solo di valutare il rischio specifico nell’ambito del documento di valutazione dei rischi, ma anche di definire procedure che prevengano l’assunzione e la somministrazione e consentano una vigilanza continua sui lavoratori. Anche nei casi di ragionevole dubbio di ubriachezza.

Mansioni soggette a divieto di assunzione di alcol sul lavoro

Le attività lavorative a elevato rischio di infortunio o per la sicurezza, l’incolumità o la salute anche di terzi sono elencante nell’allegato 1 del Provvedimento del 16 marzo 2006 della Conferenza Stato- Regioni.

La normativa ha introdotto a partire dal 2001 il divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche nelle attività lavorative a elevato rischio di infortunio o per la sicurezza, l’incolumità o la salute anche di terzi.

Le riporto in forma sintetica:

  • impiego di gas tossici;
  • conduzione di generatori di vapore, attività di fochino, fabbricazione e uso di fuochi d’artificio, addetto e responsabile della produzione, confezionamento, detenzione, trasporto e vendita di esplosivi;
  • vendita di fitosanitari;
  • direzione tecnica, conduzione e manutenzione di impianti nucleari;
  • manutenzione  degli  ascensori;
  • dirigenti  e  preposti al controllo dei processi produttivi e alla  sorveglianza  dei sistemi di sicurezza negli impianti a rischio di  incidenti  rilevanti;
  • sovrintendenza ai lavori in ambienti confinato e/o sospetti di inquinamento;
  • mansioni sanitarie, sociali e socio-sanitarie svolte in strutture pubbliche e private;
  • attività di insegnamento nelle scuole pubbliche e private di ogni ordine e grado;
  • mansioni comportanti l’obbligo di porto d’armi;
  • addetti alla guida di veicoli stradali e non (metropolitane, funivie, tramvie, trasporto ferroviario, marittimo e aereo, macchine movimento terra e merci), conduttori di mezzi di sollevamento e responsabili dei fari;
  • lavoratori addetti ai comparti dell’edilizia e delle costruzioni e tutte le mansioni che prevedono attività in quota (oltre i 2 m di altezza);
  • capiforno e conduttori addetti ai forni di fusione;
  • operatori e addetti a sostanze potenzialmente esplosive e infiammabili, settore idrocarburi;
  • tutte le mansioni che si svolgono in cave e miniere.
Si deve escludere la possibilità di richiedere e acquistare alcolici e superalcolici nell'ambito delle mense aziendali o nelle strutture convenzionate.

Che cosa fare in pratica

Si parte dal DVR aziendale individuando le mansioni e le attività che ricadano nel divieto di assunzione e somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche, e a seguire:

  1. ci si interfaccia con il medico competente perché esegua gli accertamenti necessari nell’ambito della sorveglianza sanitaria;
  2. si informano i lavoratori del divieto di assunzione, precisando che questo significa non poter assumere bevande alcoliche e superalcoliche nemmeno prima dell’inizio del turno lavorativo o nelle pause di lavoro;
  3. si deve escludere la possibilità di richiedere e acquistare alcolici e superalcolici nell’ambito delle mense aziendali o nelle strutture convenzionate;
  4. si deve prevedere l’obbligo di segnalare le violazioni di cui si venisse a conoscenza (ex. si è testimoni dell’assunzione di alcolici in ambiente di lavoro o in pausa pranzo);
  5. si informano gli interessati che il mancato rispetto del divieto di assunzione è passibile di sanzioni disciplinari, amministrative e penali, a seconda del luogo e della modalità con la quale viene rilevata la violazione.

In caso di ragionevole dubbio di ubriachezza

Se il lavoratore si presenta al lavoro con alitosi alcolica, rallentamento nell'espressione verbale, andatura vacillante, scarsa o limitata coordinazione, oppure presenta comportamenti rischiosi, elevata e ingiustificata litigiosità o, ancora, esegue azioni contrastanti con le procedure di sicurezza aziendale, ci si trova ad affrontare un caso di ragionevole dubbio di ubriachezza.

Se il lavoratore si presenta al lavoro con alitosi alcolica, rallentamento nell’espressione verbale, andatura vacillante, scarsa o limitata coordinazione, oppure presenta comportamenti rischiosi, elevata e ingiustificata litigiosità o, ancora, esegue azioni contrastanti con le procedure di sicurezza aziendale, ci si trova ad affrontare un caso di ragionevole dubbio di ubriachezza.

La prima misura da mettere in atto è la richiesta al lavoratore di astenersi dall’esecuzione di ogni mansione ritenuta pericolosa per lui o per terzi, fino a che non risulti ristabilita una condizione di controllo o benessere. L’allontanamento dal luogo di lavoro, invece, può avvenire solo in caso di consenso del lavoratore, in caso contrario la sospensione dal lavoro può essere oggetto di contestazione da parte del lavoratore; e l’allontanamento deve essere gestito al fine di garantire la sicurezza del lavoratore, eventualmente accompagnandolo a casa o affidandolo alle cure di terzi (parenti).

Se si hanno timori in relazione allo stato di salute o alla possibilità che il lavoratore commetta azioni dannose per sé o per terzi, è opportuno richiedere l'intervento dei soccorsi esterni e/o delle forze dell'ordine.

Se si hanno timori in relazione allo stato di salute o alla possibilità che il lavoratore commetta azioni dannose per sé o per terzi, è opportuno richiedere l’intervento dei soccorsi esterni e/o delle forze dell’ordine, tra cui poteri vi è anche la facoltà di accertare mediante alcoltest l’effettivo stato di ubriachezza del lavoratore.

Il ragionevole dubbio di ubriachezza non è di per sé sufficiente a giustificare un procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore, azione che può essere avviata solo sulla base di un effettivo accertamento del mancato rispetto del divieto di assunzione di alcol sul lavoro, quindi solo a seguito di alcoltest con esito positivo.

La gestione dei documenti e la condivisione

Che cosa c'entrano la gestione dei documenti e la loro condivisione con formazione, sicurezza e privacy?

Che cosa c’entra la gestione dei documenti con formazione, sicurezza e privacy? E la loro condivisione poi?

C’entrano, c’entrano. Per almeno tre buoni motivi:

  1. senza i documenti non si può dimostrare nulla;
  2. senza i documenti non si conoscono le scadenze da tenere sotto controllo per rimanere in regola;
  3. non passa giorno senza che qualcuno chieda un documento che riguarda la sicurezza, la formazione del personale o la privacy.

L’ABC della gestione dei documenti

Gestire i documenti significa sapere dove sono, tenerne sotto controllo la scadenza, avere a portata di mano quelli aggiornati.

Gestire i documenti significa sapere dove sono, se riportano una scadenza da tenere sotto controllo o se hanno una scadenza anche se non ce l’hanno scritta sopra, avere a portata di mano quelli aggiornati ed evitare di inviare o consegnare a chi ce li chiede la versione sbagliata, quella vecchia e superata, che, però, deve essere conservata per un certo tempo. E dico “un certo tempo” perché i vincoli di conservazione dei documenti posso variare, ma i 10 anni sono un po’ lo spartiacque definitivo.

Sembra facile, soprattutto per chi ha avuto un’esperienza, anche breve, con i sistemi di gestione. E invece.

Esigenze più immediate

Ogni azienda ha esigenze specifiche in funzione dell’attività, della dimensione, della struttura e dell’organizzazione, ma tutte ne hanno almeno due in comune:

  1. tenere sotto controllo le scadenze;
  2. condividere gli stessi documenti con più persone, anche esterne all’impresa.

Soluzioni

Partiamo dalla scadenze.

Ogni azienda ha esigenze specifiche in funzione dell'attività, della dimensione, della struttura e dell'organizzazione, ma tutte hanno almeno due esigenze comuni: tenere sotto controllo le scadenze e condividere gli stessi documenti con più persone, anche esterne all'impresa.

Scrivere nel nome del file la data di scadenza funziona solo per poche scadenze e per file che vengono visionati frequentemente. In breve: non è una strategia sostenibile.

Raccogliere le scadenze in uno o più file excel è il punto di partenza: un unico file da aprire spesso (anche se non volentieri), eventualmente con più fogli, uno per argomento (1. formazione, 2. visite mediche, 3. verifica delle attrezzature, 4. documento di valutazione dei rischi, 5. manutenzioni impianti, …). E magari si impara anche a impostare la regola per fare in modo che le celle con scadenze in scadenza (ops!) si colorino prima che sia troppo tardi.

Poi sì, ci sono i gestionali aziendali oppure sistemi di gestione dei documenti online. Se ne possono recuperare elenchi infiniti, da marchi notissimi ad altri meno noti, ma qui sono necessari investimenti e uno sguardo ampio alle esigenze dell’impresa, non solo a quelle che riguardano sicurezza sul lavoro o privacy.

Arriviamo alla condivisione dei documenti.

Cartelle condivise di Google Drive e di Dropbox sono la soluzione gratuita alla portata di tutti per avere accesso ai documenti anche fuori dalla sede aziendale.

Qui viene in aiuto la tecnologia.

Cartelle condivise di Google Drive e di Dropbox sono la soluzione gratuita alla portata di tutti (salvo esigenze di spazio per moli di file importanti) e con almeno due vantaggi:

  1. l’assoluta personalizzazione dell’archivio, che significa poter creare le cartelle che si vogliono e come si vogliono;
  2. la possibilità di definire il tipo di condivisione, quindi se chi accede alla cartella e ai documenti ha solo la possibilità di visualizzare o anche di modificare i file condivisi.

Il problema è che sta all’utente decidere che cosa gli serve e che cosa no e ricordarsi di mantenere aggiornati i documenti.

Anche in questo caso non mancano gestionali e software, anche con app per il telefono, che uniscono condivisione dei documenti e gestione delle scadenze, ma il servizio è a pagamento, a meno che non si tratti di strumenti promossi a livello territoriale, come nel caso del portale Check della Cassa edile di Brescia.

Problemi ne abbiamo?

Se si decide di entrare nel mondo dei gestionali  e dei software di gestione dei documenti, è necessario mettere in conto un investimento iniziale di tempo per caricare tutti i documenti e i dati di interesse.

Sono onestissima e dico che possono essere due.

Se si decide di entrare nel mondo dei gestionali e dei software di gestione dei documenti, è necessario mettere in conto un investimento iniziale di tempo per caricare tutti i documenti e i dati di interesse e impostare le scadenze. Il risparmio di tempo arriva dopo però!

Per ultimo l’aspetto più antipatico, per concludere col botto. Nell’affrontare l’esigenza di gestione di documenti e scadenze, ogni impresa si muove facendo valutazioni di convenienza interna, con il risultato che ciascuno utilizza metodi e strumenti diversi che raramente comunicano tra loro. Questo significa che può capitare di dover ripetere una parte del lavoro fatto al proprio interno (caricamento dati e documenti e impostazione scadenze) per rendere disponibili e verificabili i propri documenti a soggetti terzi che hanno stabilito un proprio metodo di raccolta e verifica.

La denuncia di malattia professionale

La denuncia di malattia professionale è un adempimento che viene richiesto da INAIL a seguito dell'emissione di un certificato di (presunta) malattia professionale.

Si tratta di un adempimento che viene richiesto da INAIL a seguito dell’emissione di un certificato di (presunta) malattia professionale da parte del dipartimento di medicina del lavoro della struttura sanitaria territoriale, o da parte di altro medico che abbia aderito a specifico accordo con INAIL e le rappresentanze sindacali.

La denuncia di malattia professionale è nella pratica un atto amministrativo di trasferimento di informazioni inerenti la vita lavorativa di uno specifico lavoratore e non equivale al riconoscimento della malattia professionale, ma può porre le basi per il riconoscimento e, quindi, deve essere effettuata con cura.

Che cos’è la malattia professionale?

Le patologie che siano direttamente ricollegabili all'esposizione prolungata a specifiche attività o ambienti lavorativi sono malattie professionali.

La condizione di salute di un lavoratore può risentire dell’attività lavorativa. Questo significa che, con il passare del tempo, l’esposizione agli agenti di rischio (ex. microclima, vibrazioni, rumore, movimenti ripetitivi degli arti superiore, movimentazione manuale dei carichi, sostanze cancerogene) può comportare delle conseguenze a livello fisico per il lavoratore, l’insorgere di patologie. Le patologie che siano direttamente ricollegabili all’esposizione prolungata a specifiche attività o ambienti lavorativi sono malattie professionali.

La correlazione tra patologia e attività lavorativa non è sempre certa, cioè resta in carico a INAIL verificare che la patologia diagnosticata sia riconducibile in modo univoco all’ambito lavorativo. La denuncia di malattia professionale è il momento in cui INAIL, attraverso un medico del lavoro incaricato, avvia la verifica per stabilire se esista o meno un legame di causa-effetto tra attività lavorativa e patologia.

Chi segnala il sospetto di malattia professionale?

In primo luogo può essere il medico competente, nell'ambito della sorveglianza sanitaria periodica, a ritenere che un lavoratore stia sviluppando una patologia connessa all'attività lavorativa.

In primo luogo può essere il medico competente, nell’ambito della sorveglianza sanitaria periodica, a ritenere che un lavoratore stia sviluppando una patologia connessa all’attività lavorativa. In quel caso allerterà il datore di lavoro del fatto che invierà il lavoratore a visita presso il dipartimento di medica del lavoro dell’azienda sanitaria territorialmente competente. Il dipartimento valuterà lo stato di salute e, nel caso confermasse il sospetto del medico competente, emetterà un certificato di sospetta malattia professionale.

In secondo luogo può essere il medico curante ad avanzare il sospetto e, in questo caso, per quanto il percorso per il lavoratore sia il medesimo del caso precedente, il datore di lavoro verrà a conoscenza della situazione solo nel momento in cui dovesse ricevere il certificato medico.

Il certificato in questione riporta la dicitura “certificato di malattia professionale” ma, di fatto, la malattia deve prima ricevere il riconoscimento esplicito di “professionale” da parte di INAIL per considerarsi effettiva. Il certificato può essere trasmesso al datore di lavoro dal lavoratore, dal dipartimento di medicina del lavoro o da INAIL: quale che sia il canale, il datore di lavoro deve procedere alla denuncia di malattia professionale entro 5 giorni dal ricevimento del certificato.

La denuncia

L'invio della denuncia di malattia professionale consiste in una procedura online, alla quale si accede attraverso l'area riservata del sito INAIL.

L’invio della denuncia di malattia professionale consiste in una procedura online, alla quale si accede attraverso l’area riservata del sito INAIL. Per evitare difficoltà è utile scaricare prima il manuale specifico e seguirlo passo passo, dopo una prima lettura generale per riuscire a orientarsi nel documento. In sintesi, il datore di lavoro deve riepilogare le attività svolte dal lavoratore presso la sua impresa, aggiungendo dati anagrafici e amministrativi.

INAIL, contestualmente alla richiesta di denuncia o a seguito della presentazione da parte del datore di lavoro, trasmette uno o più questionari differenziati in funzione dei fattori di rischio che sono considerati causa della patologia diagnosticata. Il datore di lavoro deve compilarli in ogni parte pertinente e allegare la documentazione richiesta, in genere relativa alla valutazione dei rischi o a valutazioni di dettaglio.

Il riconoscimento

In caso di riconoscimento della malattia professionale, il lavoratore avrà diritto a prestazioni di carattere economico, sanitario e riabilitativo erogate da parte di INAIL.

Sulla base dei dati forniti dal datore di lavoro attraverso i questionari, un medico del lavoro incarico da INAIL valuta l’effettiva correlazione della patologia all’attività lavorativa. L’esito della valutazione può essere quindi anche un mancato riconoscimento della malattia professionale.

In caso di riconoscimento, il lavoratore avrà diritto a prestazioni di carattere economico, sanitario e riabilitativo erogate da parte di INAIL, mentre sul fronte del datore di lavoro si osserva per la sua impresa una variazione del tasso medio di tariffa INAIL, quindi un aumento del premio assicurativo.

MOG: modello di organizzazione, gestione e controllo

IL Decreto Legislativo 8 giugno 2001 n. 231 ha introdotto nell’ordinamento italiano la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati commessi nell’interesse o a vantaggio delle stesse, prevedendo contemporaneamente una via di difesa attraverso l’adozione e l'efficace attuazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) o Modello 231.

Il Decreto Legislativo 8 giugno 2001 n. 231 ha introdotto nell’ordinamento italiano la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati commessi nell’interesse o a vantaggio delle stesse, prevedendo contemporaneamente una via di difesa attraverso l’adozione e l’efficace attuazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) o Modello 231.

Chi sono le persone giuridiche?

I destinatari del Decreto (le persone giuridiche) sono:

  • gli enti forniti di personalità giuridica;
  • le società;
  • le associazioni anche prive di personalità giuridica;
  • gli enti pubblici economici;
  • gli enti privati concessionari di un pubblico servizio.

Che cos’è questa “nuova” responsabilità?

La responsabilità dell'ente sorge soltanto in occasione delle realizzazione di determinati tipi di reati da parte di soggetti legati a vario titolo all’ente, e solo nell’ipotesi che la condotta illecita sia stata realizzata nell’interesse o a vantaggio di esso.

Il Decreto 231 prevede che, in caso di commissione di uno dei reati previsti dal decreto stesso (ex. lesioni gravi o gravissime commesse in violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, gestione illecita di rifiuti, reati commessi nei rapporti con la pubblica amministrazione) da parte dei vertici dell’organizzazione o da personale subordinato (ex. dipendenti), sarà soggetto a sanzioni non solo la persona che ha commesso il reato, ma anche l’ente.

La responsabilità dell’ente sorge soltanto nel caso in cui la condotta illecita sia stata realizzata nell’interesse o a vantaggio di esso. Quindi non solo quando il comportamento illecito abbia determinato un vantaggio, patrimoniale o meno, per l’ente, ma anche qualora, pur in assenza di tale concreto risultato, il fatto-reato trovi ragione nell’interesse dell’ente.

L’elenco dei cosiddetti reati- presupposto, ossia dei reati la cui commissione può comportare l’applicazione del D. L.vo 231/01 e, quindi, la responsabilità dell’ente, è stato progressivamente ampliato.

Quali sono le sanzioni?

Il decreto 231 prevede sempre la sanzione pecuniaria, alla quale si aggiungono sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza.

Si applica sempre la sanzione pecuniaria, che viene determinata in quote, in numero non inferiore a cento né superiore a mille. L’importo di una quota va da un minimo di euro 258.23 a un massimo di euro 1549.37. Questa sanzione viene definita in funzione delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, della gravità del fatto, del grado di responsabilità e delle azioni messe in atto per eliminare o attenuare le conseguenze del reato e prevenire la commissioni di ulteriori illeciti.

Alla sanzione pecuniaria si aggiungono:

  1. le sanzioni interdittive (interdizione dell’esercizio dell’attività, sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione del reato, divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi);
  2. la confisca;
  3. la pubblicazione della sentenza.

Il MOG: esonero di responsabilità

L’art. 6 del Decreto 231 contempla l’esonero dell’ente da responsabilità se dimostra che, prima della commissione del fatto, fossero presenti determinate condizioni, diverse in base alla posizione ricoperta dai soggetti responsabili della commissione del reato stesso.

L’art. 6 del Decreto 231 contempla l’esonero dell’ente da responsabilità se dimostra che, prima della commissione del fatto, fossero presenti determinate condizioni, diverse in base alla posizione ricoperta dai soggetti responsabili della commissione del reato stesso.

Nel caso il reato sia stato commesso da un soggetto in posizione apicale, l’ente deve provare:

  1. di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) idoneo a prevenire la realizzazione degli illeciti penali previsti;
  2. di aver affidato il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo (Organismo di Vigilanza);
  3. che le persone che hanno commesso il reato lo abbiano fatto eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
  4. che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo a ciò preposto
Nel caso il reato sia stato commesso da soggetti sottoposti ad altri, l’ente deve provare di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi.

Nel caso il reato sia stato commesso da soggetti sottoposti ad altri, l’ente deve provare di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi. L’ente, infatti, sarebbe responsabile qualora la commissione del reato fosse resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e di vigilanza, che è esclusa quando si verifica la condizione di un MOG efficacemente attuato.

L’efficacia del modello deve essere garantita attraverso:

  1. la verifica costante della sua corretta applicazione;
  2. l’adozione di un adeguato sistema sanzionatorio.

Com’è fatto un MOG?

Il Modello 231 o MOG è un insieme di documenti e attività.

Il Modello 231 è un insieme di documenti e attività con cui l’organizzazione:

  • individua i reati, tra quelli previsti dal Decreto 231, che possono essere attuati al proprio interno;
  • definisce le procedure operative volte a prevenire la loro commissione e “a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio“;
  • definisce le modalità con cui il modello stesso viene verificato periodicamente in modo autonomo e indipendente, prevedendo la nomina di un Organismo di Vigilanza;
  • definisce le sanzioni che l’ente applica a chi viola le regole definite dal MOG.

Potrei dire che è un upgrade dei sistemi di gestione, con i quali è buona cosa che si interfacci.

Soggetti fragili e suscettibili al COVID-19

L'individuazione dei soggetti cosiddetti fragili o suscettibili al COVID-19 è di competenza esclusiva del medico competente, unico soggetto in possesso delle informazioni anagrafiche e anamnestiche per valutare se un dato lavoratore sia da considerarsi o meno fragile in relazione al rischio di infezione da COVID-19.

Ci sono alcuni termini che sono divenuti molto famigliari ai datori di lavoro negli ultimi mesi: informazione ai lavoratori, riorganizzazione di spazi e turni di lavoro, smart working, mascherine chirurgiche ed FFP2/FFP3, pulizia e sanificazione

L’emergenza sanitaria connessa alla diffusione del COVID-19 e la necessità di riprendere le attività di lavoro ha richiesto di mettere in discussione abitudini consolidate. Anche il medico competente, a volte lasciato ai margini, è tornato a essere centrale: i protocolli sicurezza hanno sottolineato l’importanza della sorveglianza sanitaria quale misura di prevenzione per intercettare possibili casi di contagio e momento in cui il medico del lavoro, in virtù della competenza specifica può contribuire alla formazione e all’informazione dei lavoratori in relazione al “rischio COVID”.

I protocolli sicurezza hanno sottolineato l'importanza della sorveglianza sanitaria quale misura di prevenzione per intercettare possibili casi di contagio e momento in cui il medico del lavoro, in virtù della competenza specifica  può contribuire alla formazione e all'informazione dei lavoratori in relazione al "rischio COVID".

Il ruolo del medico competente in relazione all’attuazione dei protocolli sicurezza per il contenimento dei contagi da COVID-19 è importante però anche per altri due elementi: il medico competente deve sottoporre a visita il personale che rientra al lavoro dopo aver contratto l’infezione da COVID-19 (previa negativizzazione del tampone) e deve provvedere a identificare e segnalare al datore di lavoro situazioni di particolare fragilità, anche in relazione all’età, del personale, perché possa provvedere alla loro tutela . Ma in pratica che cosa significa?

Chi sono i soggetti fragili e suscettibili al COVID-19?

L’individuazione dei soggetti cosiddetti fragili o suscettibili al COVID-19 è di competenza esclusiva del medico competente, unico soggetto in possesso delle informazioni anagrafiche e anamnestiche per valutare se un dato lavoratore sia da considerarsi o meno fragile in relazione al rischio di infezione da COVID-19. A titolo esemplificativo sono considerati fragili i soggetti di età superiore ai 55 anni e/o immunodepressi, ipertesi, diabetici.

L'emergenza sanitaria connessa alla diffusione del COVID-19 e la necessità di riprendere le attività di lavoro ha richiesto di mettere in discussione abitudini consolidate. Anche il medico competente, a volte lasciato ai margini,  è tornato a essere centrale.

Come gestire questi lavoratori?

Una volta che il medico ha provveduto alla loro individuazione, si rende necessario un confronto con il datore di lavoro e l’RSPP al fine di valutare la compatibilità della fragilità con le condizioni di lavoro e la necessità di mettere in atto misure di prevenzione e protezione aggiuntive. Queste ultime sono volte in primo luogo a favorire un maggiore distanziamento dagli altri lavoratori e una maggiore protezione in caso di attività da svolgere a distanza inferiore al metro, come l’utilizzo di una visiera protettiva paraschizzi o l’utilizzo congiunto di occhiali protettivi e mascherina FFP2 o FFP3 (escludendo l’uso di quelle chirurgiche), oltre all’obbligo di indossare guanti monouso.

La valutazione delle misure specifiche deve essere oggetto di confronto tra il datore di lavoro e il medico competente, eventualmente consultando l’RSPP. Le misure individuate devono essere poi oggetto di specifica informativa al lavoratore interessato, al quale è opportuno richiedere l’impegno espresso al rispetto di quanto comunicato.

Una volta che il medico ha provveduto a individuare i soggetti fragili e suscettibili al COVID-19, si rende necessario un confronto con il datore di lavoro e l'RSPP al fine di valutare la compatibilità della fragilità con le condizioni di lavoro e la necessità di mettere in atto misure di prevenzione e protezione aggiuntive.

Tutela della privacy dei lavoratori fragili

I protocolli sicurezza COVID fanno esplicito riferimento alla necessità di garantire la tutela della privacy dei lavoratori cosiddetti fragili. Questo significa che il datore di lavoro non deve essere messo a conoscenza delle ragioni per cui un dato lavoratore sia da considerarsi fragile, ma ciò non toglie il diritto del lavoratore di ricevere dal medico competente tutti i chiarimenti in merito alla sua condizione che ritenesse opportuni.

Pulizia e sanificazione secondo il Protocollo COVID-19

Il Protocollo del 24 aprile e le sue declinazioni di settore parlano in diversi punti delle attività di pulizia e sanificazione.

Il Protocollo del 24 aprile e le sue declinazioni di settore parlano in diversi punti delle attività di pulizia e sanificazione senza però fornire indicazioni di dettaglio in merito ai soggetti autorizzati a svolgere tale attività e alle modalità operative, se non il richiamo alla circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute.

Alcune indicazioni utili per comprendere meglio in che cosa consistano queste attività e quali siano i soggetti che possono svolgerle, arrivano dalla provincia di Bergamo, dove è stato emanato in data 5 maggio un Protocollo territoriale integrativo del protocollo nazionale del 24 aprile 2020.

Protocollo territoriale integrativo della provincia di Bergamo

Il corpo principale del documento in questione contiene una “proposta applicativa del protocollo nazionale“, ossia una declinazione di maggiore dettaglio delle disposizioni del Protocollo del 24 aprile.

Alcune indicazioni utili per comprendere meglio in che cosa consistano pulizia e sanificazione e quali siano i soggetti che possono svolgerle, arrivano dalla provincia di Bergamo, dove è stato emanato in data 5 maggio un Protocollo territoriale integrativo del protocollo nazionale del 24 aprile 2020.

Rispetto al tema di pulizia e sanificazione, il Protocollo territoriale integrativo fornisce

  1. definizioni
  2. indicazioni operative

che rendono meglio comprensibile l’attività, la sua organizzazione e la modalità di esecuzione.

Inoltre, sulla base di questo Protocollo, ATS Bergamo e l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Bergamo hanno predisposto una check list di verifica che rende evidenti gli elementi che gli enti di controllo potranno verificare in caso di sopralluogo.

La check list viene citata anche nei siti di altri enti territoriali lombardi, per cui è ragionevole pensare che rappresenti una linea guida anche al di fuori della provincia di Bergamo.

La pulizia

Per la pulizia, il Protocollo integrativo territoriale prevede la possibilità che i singoli lavoratori svolgano un ruolo centrale, ossia possano essere incaricati della pulizia della propria postazione di lavoro all'inizio e/o alla fine del turno.

La pulizia (o detersione) consiste nella rimozione dello sporco visibile (ad es. materiale organico o inorganico) da oggetti e superfici e di solito viene eseguita manualmente o meccanicamente usando acqua con detergenti o prodotti enzimatici. Una pulizia accurata è essenziale prima della disinfezione e della sterilizzazione poiché i materiali inorganici e organici che rimangono sulle superfici interferiscono con l’efficacia di questi processi.

Per questa attività, il Protocollo integrativo territoriale prevede la possibilità che i singoli lavoratori svolgano un ruolo centrale, ossia possano essere incaricati della pulizia della propria postazione di lavoro all’inizio e/o alla fine del turno. Pertanto resterebbe in carico al datore di lavoro:

  1. l’individuazione dei prodotti e delle modalità di esecuzione della pulizia (ex. ricorso a panni inumiditi, divieto di utilizzare getti d’acqua ad alta pressione, utilizzo di detergenti conformi al Regolamento CE n.648/2004);
  2. la fornitura dei DPI idonei;
  3. l’informazione/ addestramento al lavoratore.

La pulizia, così come la sanificazione, deve essere registrata.

La sanificazione

La sanificazione, dice il Protocollo integrativo della provincia di Bergamo, è la detersione con successiva disinfezione.

L’attività di sanificazione riguarda il “complesso dei procedimenti ed operazioni atti a rendere sani determinati ambienti mediante l’attività di pulizia e/o disinfezione e/o disinfestazione, ovvero mediante il controllo ed il miglioramento delle condizioni del microclima”.

Si tratta, dice ancora il Protocollo integrativo territoriale, di interventi di detersione e di successiva disinfezione, e rimanda alla circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute per individuare i prodotti da utilizzare per la disinfezione (ipoclorito di sodio 0,1% – 0,5%, etanolo 62% – 71% e perossido di idrogeno 0,5%).

Il questo caso il Protocollo integrativo territoriale non contiene indicazioni in merito ai soggetti che possono svolgere tale attività, ma le stesse si possono ricavare dalla check list di ATS- ITL Bergamo. Il documento prevede che l’impresa debba essere in grado di fornire “elenco delle date delle sanificazioni effettuate sui luoghi di lavoro con descrizione delle modalità operative e dei prodotti utilizzati e, qualora affidata a ditta esterna, eventuale copia della certificazione rilasciata dalla ditta sanificatrice“.

Non è quindi obbligatorio l’affidamento all’esterno dell’attività di sanificazione, ma gli organi di vigilanza richiederanno di conseguenza che l’attività sia valutata e formalizzata nel DVR (sez. 4 della check list di ATS – ITL Bergamo).

Non è obbligatorio l'affidamento all'esterno dell'attività di sanificazione, ma gli organi di vigilanza richiederanno di conseguenza che l'attività sia valutata e formalizzata nel DVR (sez. 4 della check list di ATS - ITL Bergamo).

Inevitabile a questo punto procedere, come nel caso della pulizia, alla definizione dei prodotti da utilizzare, delle procedure di lavoro (ex. l’importanza dell’aerazione), alla fornitura di DPI e all’informazione e addestramento del lavoratore, soprattutto nel caso in cui quest’ultimo si trovasse a svolgere una nuova mansione.

Requisiti delle imprese di sanificazione

Concludo con un ultimo riferimento utile del Protocollo integrativo territoriale, ossia il richiamo alle linee guida di A.N.I.D. (Associazione nazionale delle Imprese di Disinfestazione) intitolate “Buone prassi igieniche nei confronti di SARS CoV 2“.

Oltre alle indicazioni professionali sulle modalità tecniche e operative per organizzare l’attività di sanificazione in azienda, il sito dell’Associazione dispone di un archivio per individuare le imprese associate, quindi certamente in possesso dei requisiti per svolgere l’attività specifica su incarico di terzi.

RSPP e Servizio di Prevenzione e Protezione: interni o esterni?

L'RSPP è la figura che coordina il Servizio di Prevenzione e Protezione (SPP) aziendale su incarico diretto da parte del datore di lavoro; il SPP è un gruppo di lavoro che svolge un ruolo consulenziale nei confronti del datore di lavoro e comprende l'RSPP ed eventuali ASPP (Addetti al SPP).

L’RSPP è la figura che coordina il Servizio di Prevenzione e Protezione (SPP) aziendale su incarico diretto da parte del datore di lavoro; il SPP è un gruppo di lavoro che svolge un ruolo consulenziale nei confronti del datore di lavoro e comprende l’RSPP ed eventuali ASPP (Addetti al SPP).

Salvo casi specifici che richiamo di seguito, il Testo Unico Sicurezza non vincola a nominare il SPP internamente o esternamente all’azienda e, anche in relazione al suo responsabile (RSPP), resta in carico al datore di lavoro valutare la possibilità e l’adeguatezza della scelta tra un RSPP interno o esterno, ossia tra l’assunzione diretta dell’incarico o l’attribuzione a un dipendente piuttosto che a un consulente esterno.

Indicazioni e vincoli del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.

I riferimenti per scegliere chi nominare e quante persone nominare sono contenute nell’art. 31 del Testo Unico Sicurezza, che riassumo di seguito per punti.

alvo casi specifici che richiamo di seguito, il Testo Unico Sicurezza non vincola a nominare il SPP internamente o esternamente all'azienda e, anche in relazione al suo responsabile (RSPP), resta in carico al datore di lavoro valutare la possibilità e l'adeguatezza della scelta tra un RSPP interno o esterno, ossia tra l'assunzione diretta dell'incarico o l'attribuzione a un dipendente piuttosto che a un consulente esterno.

1. Gli addetti (ASPP) e i responsabili (RSPP) devono possedere le capacità e i requisiti professionali previsti dall’art. 32 per poter svolgere l’incarico, ossia devono titoli di studio e aver frequentato percorsi di formazione specifici.

2. Il datore di lavoro organizza il servizio di prevenzione e protezione prioritariamente all’interno della azienda o della unità produttiva, o incarica persone o servizi esterni. Il ricorso a persone o servizi esterni è obbligatorio in assenza di dipendenti in possesso dei requisiti professionali richiesti per svolgere l’incarico di RSPP e ASPP. In caso di istituzione del SPP internamente all’azienda è comunque possibile richiedere il supporto di consulenti esterni per integrare, se necessario, le attività svolte dal personale interno.

3. Gli ASPP e gli RSPP devono essere in numero sufficiente rispetto alle caratteristiche dell’azienda e disporre di mezzi e di tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati.

4. Nelle aziende con più unità produttive o nei gruppi di imprese, può essere istituito un unico SPP, quindi essere nominato un solo RSPP supportato da un numero adeguato di ASPP.

Nei casi specifici previsti dall'art. 31 del Testo Unico Sicurezza, il SPP e l'RSPP devono essere interni all'azienda e l'RSPP non può coincidere con il datore di lavoro.

5. Il datore di lavoro può svolgere direttamente l’incarico di RSPP nei seguenti casi:

  • aziende artigiane fino a 30 lavoratori;
  • aziende industriali fino a 30 lavoratori, esclusi i casi indicati al punto seguente;
  • aziende agricole e zootecniche fino a 30 lavoratori;
  • aziende della pesca fino a 20 lavoratori;
  • altre aziende fino a 200 lavoratori.

6. Il SPP e l’RSPP devono essere interni all’azienda e l’RSPP non può coincidere con il datore di lavoro nei seguenti casi:

  • aziende industriali cosiddette RIR (a rischio incidente rilevante);
  • centrali termoelettriche;
  • impianti nucleari;
  • impianti, stabilimenti, istituti, reparti, gabinetti medici, laboratori, adibiti ad attività comportanti, a qualsiasi titolo, la detenzione, l’utilizzazione, la manipolazione di materie radioattive, prodotti, apparecchiature in genere contenenti dette materie, il trattamento, il deposito e l’eventuale smaltimento nell’ambiente di rifiuti nonché l’utilizzazione di apparecchi generatori di radiazioni ionizzanti classificati in categoria A;
  • installazioni di deposito o smaltimento di rifiuti radioattivi;
  • aziende per la fabbricazione e il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni;
  • aziende industriali con oltre 200 lavoratori;
  • industrie estrattive con oltre 50 lavoratori;
  • strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori.

In pratica

Nelle aziende con più unità produttive o nei gruppi di imprese, può essere istituito un unico SPP, quindi essere nominato un solo RSPP supportato da un numero adeguato di ASPP.

In termini pratici ci si muove seguendo questa sequenza:

  1. verificare se si rientra nei casi soggetti a vincoli per quanto riguarda l’impossibilità di svolgimento dell’incarico da parte del datore di lavoro o di istituzione del SPP e di nomina del RSPP internamente all’organizzazione;
  2. individuare il numero adeguato e/o necessario di componenti del SPP considerando la necessità di nominare sempre e comunque un RSPP;
  3. valutare la presenza di personale aziendale che svolga mansioni strettamente connesse alla gestione della salute e della sicurezza in azienda in possesso dei titoli di studio e/o della formazione necessaria;
  4. completare i percorsi formativi che sono specifici per RSPP, ASPP e datore di lavoro che svolge direttamente l’incarico di RSPP;
  5. nominare l’RSPP e gli eventuali ASPP individuati e formati;
  6. procedere agli aggiornamenti della formazione per garantire il mantenimento dei requisiti per ricoprire l’incarico.

Se ti serve aiuto per costituire il Servizio di Prevenzione e Protezione e individuare l’RSPP o uno o più ASPP, scrivimi!