La formazione obbligatoria per i lavoratori autonomi

Artigiani o lavoratori autonomi sono soggetti a obblighi di legge diversi dalle imprese per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, ossia godono di alcune semplificazioni. Questo aspetto si applica anche alla formazione. Ecco quali sono i corsi sicurezza obbligatori per gli artigiani.

La norma li chiama lavoratori autonomi, in gergo li si chiama artigiani, i commercialisti li chiamano partite iva (liberi professionisti) e ditte individuali senza dipendenti. Quale che sia il nome che preferite, la sostanza è che questi soggetti devono sottostare a obblighi di legge diversi dalle imprese per quanto riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro, ossia godono di alcune semplificazioni. Questo aspetto si applica anche alla formazione. Ecco quali sono i riferimenti di legge e gli aspetti operativi da verificare per individuare i corsi sicurezza obbligatori per i lavoratori autonomi.

Gli obblighi generali

L’articolo 3 (campo di applicazione), comma 11, del Testo Unico Sicurezza prevede che:

Nei confronti dei lavoratori autonomi […] si applicano le disposizioni di cui agli articoli 21 e 26.

L’articolo 21 stabilisce che le ditte individuali senza dipendenti debbano:

  1. utilizzare le attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni del Titolo III;
  2. munirsi di dispositivi di protezione individuale e utilizzarli conformemente alle disposizioni del Titolo III;
  3. munirsi di apposita tessera di riconoscimento se svolgono la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto.
Relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico, gli artigiani hanno facoltà (quindi non sussiste un obbligo) di beneficiare della sorveglianza sanitaria e di partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Lo stesso articolo di legge precisa che, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico, gli artigiani hanno facoltà (quindi non sussiste un obbligo) di:
a) beneficiare della sorveglianza sanitaria;
b) partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

L’eccezione al carattere facoltativo è quella in cui disposizioni speciali contengano previsioni differenti.

L’articolo 26 riguardava invece il coordinamento nell’ambito dei contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione e non è quindi rilevante per determinare quale sia la formazione obbligatoria per i lavoratori autonomi.

La “vecchia” interpretazione

Poiché l’Allegato XVII prevede che, nell’ambito dei cantieri temporanei e/o mobili, il committente o l’impresa subappaltante, verifichino l’idoneità tecnico- professionale dei lavoratori autonomi richiedendo, tra l’altro, gli attestati di formazione e l’idoneità sanitaria dal Testo Unico Sicurezza, si era diffusa l’idea che la formazione sicurezza e la sorveglianza sanitaria fossero un obbligo a carico dei lavoratori autonomi.

Poiché l'Allegato XVII prevede che, nell'ambito dei cantieri temporanei e/o mobili, il committente o l'impresa subappaltante, verifichino l'idoneità tecnico- professionale dei lavoratori autonomi richiedendo, tra l'altro, gli attestati di formazione e l'idoneità sanitaria dal Testo Unico Sicurezza, si era diffusa l'idea che la formazione sicurezza e la sorveglianza sanitaria fossero un obbligo a carico degli artigiani.

In merito si è però espressa la Commissione per gli interpelli con l’Interpello n.7/2013 che ha sottolineato che, non solo tale interpretazione era stata superata dalle modifiche introdotte all’Allegato XVII dal D. L.vo 106/2009, ma che l’Accordo Stato Regioni del 25 luglio 2012 ha espressamente precisato che le previsioni di formazione del Testo Unico Sicurezza non sono un obbligo a carico dei lavoratori autonomi salvo gli “obblighi previsti da norme speciali.

Esistono obblighi imposti da norme speciali? Sì!

L’Accordo Stato Regioni del 27 luglio 2012 aveva precisato che non si applica ai lavoratori autonomi l’obbligo di formazione previsto dall’art. 37, e disciplinato dall’Accordo Stato- Regioni del 21 dicembre 2011, e che le indicazioni di quest’ultimo Accordo potevano costituire un “utile parametro di riferimento” nel caso in cui gli stessi avessero deciso di procedere alla formazione “base” pur non sussistendo nei loro confronti un obbligo in tal senso.

Allo stesso tempo l’Accordo aveva ribadito che altre disposizioni di legge avrebbero potuto imporre obblighi specifici per i lavoratori autonomi, citando quale esempio il D. L.vo 177/2011, che disciplina l’operatività in spazi confinati e/o sospetti d’inquinamento, rendendo quindi evidente che gli artigiani che dovessero svolgere tale tipo di attività dovrebbero soddisfare i requisiti di formazione previsto dal decreto.

Altra disposizione di legge che prevede specificamente un obbligo di formazione per gli artigiani è l'Accordo Stato- Regioni del 22 febbraio 2012 " concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori.

Altra disposizione di legge che prevede specificamente un obbligo di formazione per gli artigiani è l’Accordo Stato Regioni del 22 febbraio 2012concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, nonché le modalità per il riconoscimento di tale abilitazione, i soggetti formatori, la durata, gli indirizzi ed i requisiti minimi di validità della formazione“, il quale precisa l’applicabilità anche ai soggetti di cui all’art. 21 del Testo Unico Sicurezza, tra i quali ricadono appunto i lavoratori autonomi.

Ponteggi, posizionamento mediante funi e amianto: formazione obbligatoria per i lavoratori autonomi?

Il Testo Unico Sicurezza prevede una formazione aggiuntiva per i lavoratori addetti alle attività di montaggio, smontaggio e trasformazione ponteggi, utilizzino sistemi di posizionamento mediante funi e per coloro che siano esposti o potenzialmente esposti a polveri di amianto. Per quanto riguarda i ponteggi e l’amianto, non è presente un riferimento esplicito ai lavoratori autonomi, che invece compare per il posizionamento mediante funi.

Il Testo Unico Sicurezza prevede una formazione aggiuntiva per i lavoratori addetti alle attività di montaggio, smontaggio e trasformazione ponteggi e per coloro che siano esposti o potenzialmente esposti a polveri di amianto. L'obbligo è posto a carico del datore di lavoro e si applica ai lavoratori, pertanto non è presente un riferimento esplicito ai lavoratori autonomi.

Il mancato riferimento agli artigiani in relazione ad amianto e ponteggi risulta dettato da ragioni tecniche, ossia dal fatto che non è tecnicamente praticabile la gestione di queste due tipologie di attività da parte di un lavoratore autonomo, se non in sinergia con altri artigiani o con un’impresa. In quest’ultimo caso verrebbero però meno le due condizioni previste dal codice civile perché un’attività si possa configurare come contratto d’opera in capo a una singola persona, ossia il fatto che il lavoro sia prevalentemente proprio e senza vincoli di subordinazione verso il proprio committente. A questo si aggiungerebbe la difficoltà oggettiva di gestire i rischi interferenziali tra i vari soggetti coinvolti. In altri termini il legislatore non prevede un obbligo specifico, ritenendo irrealistico che un artigiano svolga tali attività.

Il rapporto con il medico competente: consigli e opportunità

Il medico competente non vi dà la disponibilità di tempo e di informazioni per avere chiaro quel che succede? Forse è il caso che pensiate di rivolgervi a un altro professionista, perché la sua attività, se ben coordinata con quella dall'impresa, tutela anche il datore di lavoro e non solo i lavoratori, mentre se non si ha possibilità di interazione, allora si rischia diventi un boomerang del quale non è possibile nemmeno prevedere la traiettoria.

Gli si chiede di firmare il Documento di Valutazione dei Rischi, di visitare i lavoratori per accertarne l’idoneità alla mansione lavorativa, di fare il sopralluogo e di partecipare alla riunione periodica (per aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori).

La sua attività viene percepita a volte come una scocciatura che impone limitazioni e prescrizioni alle possibilità operative dei lavoratori, ma la collaborazione continuativa tra datore di lavoro e medico competente consente al primo di prevenire problemi a suo carico e di tutelare in modo concreto la salute dei propri lavoratori.

L’importante è impostare il rapporto con il medico competente in modo efficace.

Valutazione dei rischi: come e perché coinvolgere il medico competente

La partecipazione del medico competente al processo di valutazione dei rischi ha due ragioni principali:

  • contribuire alla definizione delle mansioni o gruppi omogenei dei lavoratori in funzione dei rischi ai quali sono esposti nell’esecuzione delle loro attività, per poter arrivare a definire il protocollo sanitario, quindi tipologia e frequenza degli accertamenti sanitari ai quali ciascun lavoratore deve essere sottoposto;
  • avere un punto di vista specialistico che contribuisca a definire misure di prevenzione e protezione per la salute dei lavoratori. Alcuni esempi? L’individuazione di profilassi vaccinali o la definizione di requisiti fisici e non per svolgere attività specifiche, come il questionario per i lavoratori che si vogliono destinare ad attività in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento.
La partecipazione del medico competente al processo di valutazione dei rischi ha due ragioni principali: contribuire alla definizione delle mansioni o gruppi omogenei e avere un punto di vista specialistico che contribuisca a definire misure di prevenzione e protezione per la salute dei lavoratori.

Questa attività, che in termini astratti sembra porre solo vincoli e limitazioni, in pratica assicura la messa a fuoco di questioni che, se trascurate, diventerebbero fonte di problematiche a volte ingestibili a posteriori.

I consigli su questo fronte sono due.

1) Non dare mai per scontato che una determinata nuova attività non impatti sull’attività condotta dal medico competente o che il medico competente non possa fornire indicazioni operative e soluzioni utili. Meglio una telefonata o una mail in più per evitare di dover correre ai ripari poi. Questo aspetto è rilevante per chi opera in siti sempre diversi (ex. cantieri temporanei e/o mobili o manutenzioni in siti produttivi con caratteristiche differenti) e per chi decide di avviare nuove attività o di introdurre nuove modalità operative (ex. un’impresa edile che decide di sviluppare l’attività di carpenteria metallica per non dover ricorrere in modo sistematico a fornitori esterni).

2) Sollecitare risposte operative al medico competente senza la pretesa che sia lui a fornirle spontaneamente, in quanto il medico deve essere in grado di indicare in modo chiaro e pratico le strade da seguire ma non può immaginarsi quale sia la situazione specifica se non gli viene comunicata. Un esempio? Se per la prima volta i lavoratori possono entrare in contatto con agenti biologici (ex. un’impresa di demolizioni deve intervenire in un impianto di depurazione), il medico deve esserne informato per valutare la necessità di copertura vaccinale, ma potrebbe accadere che, pur ritenendo le vaccinazioni necessarie, in commercio non siano disponibili i vaccini. Quindi il medico deve fornire indicazioni su che cosa sia opportuno/necessario fare per poter dimostrare che tale obbligo non è assolvibile in quel dato momento.

La sorveglianza sanitaria, quando si basa su un protocollo sanitario ben studiato in relazione all'attività specifica, consente di fare prevenzione a 360°.

Sorveglianza sanitaria: il cuore della prevenzione

La sorveglianza sanitaria, quando si basa su un protocollo sanitario ben studiato in relazione all’attività specifica, consente di fare prevenzione a 360°.

L’aspetto più immediato è la rilevazione di situazioni cliniche che richiedono il coinvolgimento del medico curante di un dato lavoratore, prevenendo complicazioni di salute e tutelando il benessere dell’interessato, oppure la necessità di mettere in atto un progressivo o repentino cambio della mansione del lavoratore.

Meno evidente, ma non meno essenziale, è l’individuazione di condizioni cliniche la cui evoluzione richiede di valutare l’opportunità o la necessità per il datore di lavoro di denunciare una sospetta malattia professionale, prevenendo sia il rischio che siano altri soggetti a procedere senza preavviso (ex. i medici curanti) sia il rischio di procedimenti civili (richieste di risarcimento danni) da parte dei lavoratori.

Anche in questo caso sono la trasparenza e l’atteggiamento attivo gli elementi essenziali per poter gestire in modo efficace e positivo i dati più problematici che emergono dalla sorveglianza sanitaria.

Se si è costretti a prevedere di dedicare del tempo al sopralluogo annuale del medico competente e, per le aziende con più di 15 lavoratori, alla riunione periodica, è il caso di sfruttare quei momenti per condividere informazioni, problematiche e individuare soluzioni operative.

Sopralluogo e riunione periodica: due opportunità

Ci si lamenta spesso della quantità di obblighi imposti dalla normativa, trascurando la possibilità di trarre vantaggio dai vincoli di legge. Quel che intendo dire è che, se si è costretti a prevedere di dedicare del tempo al sopralluogo annuale del medico competente e, per le aziende con più di 15 lavoratori, alla riunione periodica, è il caso di sfruttare quei momenti per condividere informazioni, problematiche e individuare soluzioni operative.

Il medico competente non vi dà la disponibilità di tempo e di informazioni per avere chiaro quel che succede? Forse è il caso che pensiate di rivolgervi a un altro professionista, perché la sua attività, se ben coordinata con quella dell’impresa, tutela anche il datore di lavoro e non solo i lavoratori, mentre, se non si ha possibilità di interazione, si rischia diventi un boomerang del quale non è nemmeno possibile prevedere la traiettoria.


[L’obbligo della riunione periodica (art. 35, D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.) scatta per più di 15 lavoratori, cioè dai 16 in su: c’è scritto lavoratori, non c’è scritto dipendenti! Quindi, per esempio, un socio lavoratore è da conteggiare, così come un tirocinante o uno studente in alternanza scuola- lavoro. Per la definizione completa di “lavoratore” si fa riferimento all’art. 2 del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.]

Registro dei trattamenti e DPIA: a che cosa servono?

La protezione dei dati deve essere gestita come la prevenzione e protezione della salute e sicurezza sul lavoro, ossia realizzando una vera e propria valutazione dei rischi che porti a definire le misure di prevenzione e protezione necessarie alla gestione dei rischi individuati e valutati. E, se è vero che il legislatore "si è liberato" dell'onere di individuare la modalità di gestione dei dati, è altrettanto vero che individua alcuni strumenti per rendere specifica e dimostrabile la sua progettazione: registro dei trattamenti e DPIA.

Ai titolari spetta il compito di decidere autonomamente le modalità, le garanzie e i limiti del trattamento dei dati personali, anche attraverso un apposito processo di valutazione che tenga conto dei rischi noti o evidenziabili e delle misure tecniche e organizzative (anche di sicurezza) necessarie per mitigare tali rischi, eventualmente consultando il Garante alla luce di questa valutazione.

Così recita la scheda di sintesi del GDPR predisposta per aziende ed enti dal Garante per la protezione dei dati personali. Ma in pratica che cosa bisogna fare? Partire da registro dei trattamenti e DPIA può essere una buona soluzione.

Progettare la gestione dei dati

Il GDPR sgombra il campo da soluzioni tecniche e organizzative standardizzate o, comunque, definite dal legislatore o dal Garante, e attribuisce ai soggetti titolari del trattamento dei dati l'onere di individuare le modalità di trattamento dei dati che consentano di rispettare i requisiti del Regolamento.

Sta diventando un tormentone l’espressione inglese ” data protection by default and by design“, che nella sua traduzione italiana perde forza e concisione (protezione dei dati fin dalla progettazione e protezione per impostazione predefinita). Nella sostanza, il GDPR sgombra il campo da soluzioni tecniche e organizzative standardizzate o, comunque, definite dal legislatore o dal Garante, e attribuisce ai soggetti titolari del trattamento l’onere di individuare le modalità di trattamento dei dati che consentano di rispettare i requisiti del Regolamento, tenendo conto di:

  • stato dell’arte;
  • costi di attuazione;
  • natura dei dati e del trattamento;
  • ambito di applicazione;
  • contesto;
  • finalità del trattamento;
  • rischi per i diritti e le libertà delle persone fisiche determinati dal trattamento.

Il Garante, nella sua guida online di applicazione del Regolamento, precisa che si deve trattare di “un’analisi preventiva e un impegno applicativo da parte dei titolari che devono sostanziarsi in una serie di attività specifiche e dimostrabili“.

Per fare un paragone con una materia nota e (forse) più famigliare, potremmo dire che la protezione dei dati deve essere gestita come la prevenzione e protezione della salute e sicurezza sul lavoro, ossia realizzando una vera e propria valutazione dei rischi che porti a definire le misure (di prevenzione e protezione) necessarie alla gestione dei rischi individuati e valutati. E, se è vero che il legislatore “si è liberato” dell’onere di individuare la modalità di gestione dei dati, è altrettanto vero che individua alcuni strumenti per rendere specifica e dimostrabile la sua progettazione.

Registro dei trattamenti

Si tratta di un vero e proprio registro, i cui contenuti non sono affatto da inventare, ma sono dettagliati in forma di elenco dall’art. 30 (Registri delle attività di trattamento) del GDPR.

Lo presento come strumento al servizio dei soggetti titolari del trattamento dei dati in quanto, anche se la normativa prevede delle deroghe alla sua obbligatorietà, questo non toglie nulla alla sua utilità nel rendere evidente e tangibile l’attività di progettazione della protezione dei dati.

Il registro dei trattamenti è un vero e proprio registro, i cui contenuti non sono affatto da inventare, ma sono dettagliati in forma di elenco dall'art. 30 del GDPR.

DPIA: Data Protection Impact Assessment

In italiano, valutazione d’impatto sulla protezione dei dati. Anche in questo caso il suo contenuto è definito dal Regolamento (art. 35), e non si tratta di un obbligo applicabile a tutti i soggetti titolari del trattamento dei dati. Ancora più del registro dei trattamenti, però, si presta molto bene alla progettazione della protezione dei dati richiedendo, tra l’altro, di

  1. realizzare una valutazione dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati;
  2. definire le misure previste per affrontare i rischi, includendo le garanzie, le misure di sicurezza e i meccanismi per garantire la protezione dei dati personali e dimostrare la conformità al Regolamento, tenuto conto dei diritti e degli interessi legittimi degli interessati e delle altre persone in questione.

È lo stesso Garante della privacy a raccomandare di andare oltre la lettura testuale degli obblighi introdotti dal Regolamento, per cogliere il senso della “nuova” gestione della privacy:

Lo stesso Garante della privacy raccomanda di andare oltre la lettura testuale degli obblighi introdotti dal Regolamento per cogliere il senso della "nuova" gestione della privacy.
Fonte: https://www.garanteprivacy.it/regolamentoue/approccio-basato-sul-rischio-e-misure-di-accountability-responsabilizzazione-di-titolari-e-responsabili

Qual è la scadenza del corso antincendio?

Il Decreto 10 marzo 1998 ha la “curiosa” caratteristica di definire i contenuti minimi dei corsi di formazione per addetti alla prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze in caso di incendio ma di non preoccuparsi di definirne la scadenza.

I lavoratori incaricati dell’attività di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave ed immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza devono ricevere un’adeguata e specifica formazione e un aggiornamento periodico” recita il comma 9 dell’art. 37 del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii., concludendo che, in attesa di novità normative in materia, la disciplina della formazione per gli addetti all’antincendio continua a essere quella definita dal Decreto 10 marzo 1998.

Il decreto, ormai noto e ampiamente attuato, ha la “curiosa” caratteristica di definire (Allegato IX) i contenuti minimi dei corsi di formazione per addetti alla prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze in caso di incendio in funzione del livello di rischio (basso, medio o elevato) dell’attività, ma di non preoccuparsi di definirne la frequenza dell’aggiornamento, che è di fatto un obbligo di legge a carico del datore di lavoro.

Quindi, qual è la scadenza del corso antincendio?

Qual è la scadenza del corso antincendio? In attesa di un'indicazione univoca da parte del legislatore, si possono sostenere 3 diverse posizioni.

In attesa di un’indicazione univoca da parte del legislatore, si possono sostenere 3 diverse posizioni:

  1. la più creativa dice che, visto che la frequenza di aggiornamento non è definita, si può definire liberamente la scadenza del corso antincendio in, diciamo, 10, 15 o 20 anni… Serve che dica che a me questa teoria non piace per niente?
  2. la più stringente si muove per analogia con l’aggiornamento della formazione di primo soccorso, quindi considera una scadenza triennale, appoggiandosi a una nota del 2012 del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Forlì- Cesena, poi adottata dal Dipartimento Regionale Emilia Romagna;
  3. la mezza via è quella di considerare l’aggiornamento quinquennale, per analogia con la restante formazione sicurezza (ex. specifica, aggiuntiva per preposti, dirigenti, RSPP, attrezzature), visto che il legislatore si è mosso in questa direzione anche per quanto riguarda la formazione della segnaletica e che da più di un anno si vocifera di una bozza di nuovo decreto antincendio che prevederebbe esplicitamente questo termine.

La bozza del nuovo decreto antincendio

La notizia ha iniziato a circolare a fine 2018: il "nuovo decreto antincendio" era in fase di emanazione, a inizio 2019 si diceva fosse oramai stato approvato in bozza.  A oggi non ci sono notizie di emanazione.

La notizia ha iniziato a circolare a fine 2018: il “nuovo decreto antincendio” era in fase di emanazione, a inizio 2019 si diceva fosse oramai stato approvato in bozza. Tra le novità previste, quella della definizione della frequenza di aggiornamento del corso per addetti all’antincendio che sarebbe stata fissata a 5 anni.

La bozza di decreto però è rimasta tale, cioè a oggi non ci sono notizie di emanazione della nuova norma. Anche se capita che Coordinatori per la Sicurezza e uffici incaricati della qualifica delle imprese sollecitino gli attestati di aggiornamento “come previsto dal decreto”, e trasmettano a sostegno della loro richiesta scocciata il testo di quella bozza, convinti che si tratti di normativa vigente.

In pratica, che cosa fare?

L'interpretazione della scadenza triennale del corso antincendio è comunque a oggi la più diffusa, ed è anche l'unica a trovare riscontro in un documento vigente, anche se di carattere non vincolante per i datori di lavoro.

Sicuramente è cosa buona e giusta scartare la teoria dell’anarchia. Tra la strada della scadenza triennale e quella della scadenza quinquennale, invece, si tratta di scegliere quale corrente di pensiero adottare e di portarla avanti con coerenza.

L’interpretazione della scadenza triennale del corso antincendio è comunque a oggi la più diffusa, ed è anche l’unica a trovare riscontro in un documento vigente, anche se di carattere non vincolante per i datori di lavoro (le circolari hanno infatti come destinatari gli enti, ai quali forniscono indirizzi per un’applicazione omogenea della normativa e dei controlli a livello territoriale).

La nota del 2011 dei Vigili del fuoco

Al mistero della scadenza del corso antincendio ha contributo anche una nota del 2011 che, sorvolando sulla questione della frequenza di aggiornamento dei corsi, ha invece fornito indicazioni in merito a durata e contenuti dei corsi di aggiornamento.

Al mistero della scadenza del corso antincendio ha contributo anche una nota del 2011 del Dipartimento dei Vigili del Fuoco – Direzione Centrale della Formazione (protocollo n. 5987 del 23 febbraio 2011) che, sorvolando sulla questione della frequenza di aggiornamento dei corsi, ha invece fornito indicazioni in merito a durata e contenuti dei corsi di aggiornamento per addetti all’emergenza incendio, mantenendo la distinzione in funzione del livello di rischio. Per conoscerne i dettagli, puoi scaricarla QUI.

L’Accordo Stato Regioni del 2016

Si tratta dell“Accordo tra Governo, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano finalizzato all’individuazione della durata e dei contenuti minimi dei percorsi formativi per i Responsabili e gli Addetti dei Servizi di Prevenzione e Protezione, ai sensi dell’art. 32 del D.Lgs. 81/08 e ss.mm.ii.”.

Oltre a delineare le novità della formazione per RSPP e ASPP, l’Accordo riporta nell’Allegato V una tabella riassuntiva dei criteri della formazione rivolta ai soggetti con ruoli in materia di prevenzione, dettagliando i requisiti di corsi base e aggiornamenti, riportando, in relazione all’aggiornamento della formazione antincendio, che il Decreto 10 marzo 1998 non prevede una frequenza di aggiornamento.

C'è chi ha interpretato l'Accordo Stato Regioni del 2016 come la definitiva messa al bando di ogni esigenza di aggiornamento della formazione antincendio, rappresentando l'Accordo Stato Regioni una disposizioni di legge successiva al Testo Unico Sicurezza e alla nota del 2012 dei Vigili del Fuoco

C’è chi ha interpretato questo dettaglio come la definitiva messa al bando di ogni esigenza di aggiornamento della formazione antincendio, rappresentando l’Accordo Stato Regioni una disposizioni di legge successiva al Testo Unico Sicurezza e alla nota del 2012 dei Vigili del Fuoco.

Si tratta però di un’interpretazione forzata, nella misura in cui l’Accordo in questione si limita a riassumere le norme vigenti, mettendo in luce il fatto che l’allegato IX del Decreto del 1998 non preveda indicazioni in merito all’aggiornamento del corso antincendio, e non definisce in modo chiaro ed esplicito una modifica dell’obbligo previsto dal Testo Unico Sicurezza.

In altre parole, non condivido la posizione di chi sostiene che l’Accordo Stato Regioni del 2016 ha ufficialmente risolto l’incertezza della questione a favore di un secco “non bisogna aggiornare nulla”.

Le attività soggette a CPI

C'è chi ha avuto esperienza di Comandi Provinciali che applicano la nota del 2012 come un obbligo effettivo e, quindi, richiedono ai titolari delle attività soggette a Certificato Prevenzione Incendi un aggiornamento triennale della formazione antincendio, e c'è chi, invece, ha avuto esperienza di Comandi Provinciali che assumono un atteggiamento meno stringente, facendosi più promotori che controllori dell'aggiornamento periodico della formazione specifica.

In merito a questo aspetto si hanno esperienze diverse tra consulenti: c’è chi ha avuto esperienza di Comandi Provinciali che applicano la nota del 2012 come un obbligo effettivo e, quindi, richiedono ai titolari delle attività soggette a Certificato Prevenzione Incendi (D.P.R. 151/11) un aggiornamento triennale della formazione antincendio, e c’è chi, invece, ha avuto esperienza di Comandi Provinciali che assumono un atteggiamento meno stringente (quindi nessuna applicazione di sanzioni), facendosi più promotori che controllori dell’aggiornamento periodico della formazione specifica.

Se l’atteggiamento sembra legato a linee di condotta differenti dei Comandi Provinciali, in ogni caso resta un’indicazione importante per ragionare in modo consapevole sulla modalità di definizione dell’aggiornamento del corso antincendio.


[Articolo aggiornato in data 16.02.2020, dopo un intenso scambio di opinioni in gruppi Facebook che affrontano argomenti relativi alla salute e alla sicurezza sul lavoro: alla faccia di chi sostiene che la gestione dell’aggiornamento antincendio sia chiara e definita.]

Dallo standard 18001 allo standard 45001

A partire dal 10 marzo 2020, lo standard BS OHSAS 18001:2007 verrà a riposo a favore del nuovo standard internazionale ISO 45001:2018. Ma che cosa accadrà?

Oggi una notizia per chi già ha confidenza con i sistemi di gestione per la sicurezza: a partire dal prossimo 10 marzo (2020), lo standard BS OHSAS 18001:2007 verrà definitivamente messo a riposo a favore del nuovo standard internazionale ISO 45001:2018 (versione italiana del 13 marzo 2018, UNI ISO 45001:2018).

Ma che cosa accadrà? Che cosa deve fare chi ha un sistema di gestione per la sicurezza certificato rispetto allo standard britannico?

Tempistiche di transizione dalla 18001 alla 45001

Il nuovo standard ISO 45001 è stato pubblicato il 12 marzo 2018 e la migrazione dal vecchio standard BS OHSAS 18001 al nuovo standard è stata pianificata come di consueto in 3 anni, ossia:

  • il vecchio standard sarà ritirato in data 12 marzo 2021 e a partire da quella data le certificazioni rispetto allo standard britannico non godranno più di alcun riconoscimento;
  • sino al 12 marzo 2021 restano valide sia le certificazioni emesse a fronte della nuova norma sia le certificazioni emesse a fronte della BS OHSAS 18001:2007;
  • tutte le certificazioni rilasciate secondo lo standard BS OHSAS 18001 durante il periodo di migrazione avranno una durata inferiore ai tre anni , e sul certificato sarà riportata come scadenza l’11 marzo 2021.
Il nuovo standard ISO 45001 è stato pubblicato il 12 marzo 2018 e la migrazione dal vecchio standard BS OHSAS 18001 al nuovo standard è stata pianificata come di consueto in 3 anni

Ma c’è un obbligo aggiuntivo: a partire dal 12 marzo 2020 gli enti di certificazione potranno effettuare audit solo secondo i requisiti dello standard 45001.

Come avviene la transizione della certificazione

L’audit di migrazione della certificazione del proprio sistema di gestione alla nuova norma può essere effettuato in concomitanza con un audit di mantenimento (secondo o terzo audit del ciclo triennale) oppure con un audit di rinnovo, aggiungendo in entrambi i casi almeno 1 giorno-uomo alla durata pianificata originariamente. È quindi opportuno richiedere l’adeguamento del contratto con l’ente di certificazione.

Si può prevedere la pianificazione di un audit straordinario per la verifica della migrazione alla nuova norma, ma questa possibilità è poco pratica e più onerosa in termini economici e di impegno di tempo.

Come anticipato, a partire dal 12 marzo 2020 gli enti di certificazione renderanno vincolante l’applicazione dei requisiti dello standard ISO 45001, ma perché la certificazione sia riconosciuta, l’ente dovrebbe essere già accreditato per il nuovo standard internazionale. In caso contrario, durante l’audit di transizione il sistema di gestione verrà valutato sia rispetto allo standard BS OHSAS 18001:2007 sia rispetto allo standard ISO 45001:2018 e, alla conclusione dell’iter di transizione dell’accreditamento, l’ente di certificazione provvederà a riemettere il certificato accreditato.

Per approfondire le novità dal lato degli enti di certificazione, è possibile consultare la Circolare informativa DC N° 08/2018 di Accredia.

Quando ci si trova nelle fasi di passaggio da una vecchia norma a una nuova capita spesso che qualcuno si perda informazioni più o meno di dettaglio... Per esempio, potresti incappare in bandi di gara che non tengono conto di tutti i passaggi richiesti per la transizione delle certificazioni dallo standard 18001 allo standard 45001 e, magari, escludere i riferimenti alle certificazioni BS OHSAS 18001 a favore di quelli alle certificazioni UNI ISO 45001 o viceversa. Che cosa fare?

Attenzione ai bandi di gara

Quando ci si trova nelle fasi di passaggio da una vecchia norma a una nuova capita spesso che qualcuno si perda informazioni più o meno di dettaglio… Per esempio, potresti incappare in bandi di gara che non tengono conto di tutti i passaggi richiesti per la transizione delle certificazioni dallo standard 18001 allo standard 45001 e, magari, escludere i riferimenti alle certificazioni BS OHSAS 18001 a favore di quelli alle certificazioni UNI ISO 45001 o viceversa. Che cosa fare? Sempre meglio segnalare l’aspetto alla stazione appaltante attraverso la presentazione di un quesito, eventualmente richiedendo il supporto del tuo consulente o direttamente dell’ente di certificazione per formularlo in modo puntuale.

Che cosa cambia, in sintesi, dallo standard 18001 allo standard 45001

La pubblicazione di uno standard internazionale (ISO) consente prima di tutto di superare il problema della riconoscibilità delle certificazioni dei sistemi di gestione della salute e sicurezza a livello internazionale. In origine, infatti, era stata la prassi, ossia l’assenza di uno standard internazionale, a diffondere il ricorso su scala globale allo standard 18001, che era però uno standard britannico (BS sta per British Standard) e come tale non consentiva il mutuo riconoscimento delle certificazioni emesse dagli enti dei diversi Stati (aspetto con risvolti pratici per chi opera su scala internazionale).

Inoltre il nuovo standard ISO adegua la struttura e la logica a quella dell’ultima edizione degli standard di riferimento per i sistemi di gestione per la qualità (ISO 9001:2015) e per l’ambiente (ISO 14001:2015), nell’ottica di semplificare lo sviluppo di sistemi di gestione integrati, quindi strutturati in modo da rispondere contemporaneamente ai requisiti dei diversi standard di riferimento.

Che cosa cambia, in sintesi, dallo standard 18001 allo standard 45001.

Uguale struttura significa anche uguale approccio, basato su

  1. valutazione del rischio;
  2. analisi del contesto dell’organizzazione;
  3. partecipazione attiva dell’alta direzione;
  4. consultazione e partecipazione dei lavoratori.

Per iniziare un confronto più dettagliato tra i due standard, ti invito a consultare la tabella di comparazione che puoi scaricare al link riportato di seguito. Se sei in cerca di soluzioni operative, invece, bisogna passare alla consulenza sul campo in quanto è necessario valutare sia come opera l’organizzazione sia la struttura attuale del sistema di gestione.

Risorse gratuite

Il Comitato europeo per la protezione dei dati

Il Comitato europeo per la protezione dei dati influenza l'applicazione del GDPR da parte del Garante della privacy, è quini utile conoscerne l'attività.

Il Comitato europeo per la protezione dei dati o EDPB (European Data Proteciont Board) è stato istituito dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (Regolamento UE 2016/679 o GDPR). Non ha un ruolo diretto nell’applicazione della normativa per i soggetti operanti nei diversi Stati europei ma, di fatto, agendo per armonizzare l’applicazione del GDPR a livello europeo, influenza l’applicazione dello stesso da parte delle autorità di controllo nazionali (Garante della privacy). Per questo motivo è utile conoscerne l’attività.

Che cos’è il Comitato europeo per la protezione dei dati?

Il Comitato è un organismo dell’Unione europea con personalità giuridica, composto dai Garanti della privacy di ciascuno Stato membro dell’Unione Europea e dal Garante europeo della protezione dei dati.

A che cosa serve l’EDPB?

Il compito del Comitato è essenzialmente uno: garantire l’applicazione coerente del GDPR tra i vari Stati facenti parte dell’Unione Europea.

Il compito del Comitato è essenzialmente uno: garantire l'applicazione coerente del GDPR tra i vari Stati facenti parte dell'Unione Europea.

Nella pratica il Comitato:

  1. fornisce consulenza alla Commissione europea in materia di protezione dei dati personali;
  2. fornisce parere alle autorità di controllo nazionali in merito alle loro decisioni (ex. l’elenco di trattamenti soggetti alla valutazione d’impatto sulla protezione dei dati; la prima emissione, modifica o proroga di un codice di condotta);
  3. risolve le controversie tra le autorità di controllo nazionali attraverso l’emissione di decisioni vincolanti;
  4. pubblica linee guida, raccomandazioni e migliori prassi su qualsiasi questione relativa all’applicazione del Regolamento UE 2016/679 (
  5. promuove la cooperazione e lo scambio di informazioni e prassi tra le autorità di controllo;
  6. redige una relazione annuale sulla protezione dei dati personali all’interno dell’Unione europea e, se opportuno, nei paesi terzi e nelle organizzazioni internazionali (ossia nei casi in cui si ponga la problematica del trasferimento dei dati dall’Unione verso Stati non facenti parti dell’UE).

Quali sono le attività dell’EDPB da tenere sotto controllo

Il sito dell'EDPB merita di essere consultato per prendere visione delle linee guida adottate, che possono riguardare aspetti di interesse della gestione della privacy a livello aziendale. Per quanto si tratti di disposizioni non vincolanti, conoscere l'orientamento europeo nella gestione dei dati personali consente di attuare in maniera più consapevole i requisiti di legge.

Il sito dell’EDPB merita di essere consultato per prendere visione delle linee guida adottate, che possono riguardare aspetti di interesse della gestione della privacy a livello aziendale. Per quanto si tratti di disposizioni non vincolanti, conoscere l’orientamento europeo nella gestione dei dati personali consente di attuare in maniera più consapevole i requisiti di legge. Puoi trovare un esempio pratico nell’articolo relativo alla gestione delle telecamere in azienda.

Per lo stesso motivo, è utile una consultazione periodica del sito del Comitato per prendere visione delle news. Le notizie di stampa nazionale, in particolare, possono essere utili per le realtà che operano a livello internazionale, in quanto forniscono in via indiretta informazioni sull’applicazione del GDPR oltre le Alpi.

Prima dell’EDPB

Qui in Italia siamo appassionati di storia, per cui non possiamo sorvolare sulla differenza tra il prima e il dopo GPDR. Sarò molto sintetica, in ogni caso: prima dell’entrata in vigore del GDPR non esisteva un organismo del tutto equivalente, ma una parte delle attività veniva svolta dall’Article 29 Working Party (Art. 29 WP 29).

L’attività dell’Art. 29 WP è cessata ufficialmente il 25 maggio 2018, e le linee guida elaborate da questo organismo ritenute ancora attuali sono state approvate dall’EDPB nel corso della sua prima sessione plenaria, e sono infatti consultabili nel sito del Comitato alla pagina delle linee guida, pareri e raccomandazioni.

Attenzione a non fare confusione

Le sigle sono pratiche, ma c'è il rischio di confondersi: oltre all'EDPB potresti sentire parlare dell'EDPS, lo European Data Protection Supervisor o Garante europeo della privacy.  I due soggetti sono distinti, fatta eccezione per la loro segreteria che è comune (art. 75 del GDPR).

Le sigle sono pratiche, ma c’è il rischio di confondersi: oltre all’EDPB potresti sentire parlare dell’EDPS, lo European Data Protection Supervisor o Garante europeo della privacy. I due soggetti sono distinti, fatta eccezione per la loro segreteria che è comune (art. 75 del GDPR).

La differenza essenziale riguarda le relative competenze: quelle dell’EDPS, istituito dal Regolamento 45/2001, riguardano il trattamento dei dati personali da parte di istituzioni, organi, uffici e agenzie dell’Unione europea.

Verifica delle competenze ed efficacia della formazione

verificare le competenze non equivale ad accertare l'efficacia della formazione.

Formare, formare, formare!“, questo l’imperativo della salute e sicurezza sul lavoro che nasce dall’idea, condivisibile, che chi più sa meno sbaglia. Eppure sapere, quindi avere conoscenze e competenze, non sempre equivale a fare, ossia mettere in atto i comportamenti e le soluzioni richieste o conformi a quanto appreso. Detto in altre parole, verificare le competenze non equivale ad accertare l’efficacia della formazione.

Ma perché preoccuparsene? È un obbligo di legge?

La verifica delle competenze

La formazione è concepita dal legislatore come lo strumento attraverso il quale i lavoratori acquisiscono “le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro” (art. 37, comma 13).

Per chi avesse italicamente pensato di risolvere la questione in modo solo formale, il legislatore ha esplicitato tramite gli Accordi Stato- Regioni che i percorsi formativi si devono concludere con una prova di verifica obbligatoria, orale o scritta (colloquio o test), “finalizzata a verificare le conoscenze relative alla normativa vigente e le competenze tecnico- professionali acquisite in base ai contenuti del percorso formativo” (Accordo Stato Regioni del 21/12/2011). Cioè al legislatore non interessa tanto l’attestato, che è comunque un documento obbligatorio di registrazione della formazione, quanto che chi è stato formato abbia imparato quel che doveva.

Per chi avesse italicamente pensato di risolvere la questione della formazione in modo solo formale, il legislatore ha esplicitato tramite gli Accordi Stato- Regioni che i percorsi formativi si devono concludere con una prova di verifica obbligatoria, orale o scritta (colloquio o test), "finalizzata a verificare le conoscenze relative alla normativa vigente e le competenze tecnico- professionali acquisite in base ai contenuti del percorso formativo" (Accordo Stato Regioni del 21/12/2011).

Quindi la verifica delle competenze, che deve essere effettuata al termine del percorso di formazione attraverso un colloquio o un test scritto, è un obbligo di legge ed è lo strumento con cui si verifica che i lavoratori abbiano imparato la teoria.

Sapere e saper fare

L’idea che sapere non equivalga a saper fare è chiara già nel Testo Unico della sicurezza, che accompagna l’attività di formazione con quella di addestramento e ne prevede anche la definizione (art. 2, comma 1, lettera cc)).

La verifica dell’efficacia della formazione

Sono stati i sistemi di gestione prima e l’INAIL poi, tramite l’OT24 ora OT23, a far sorgere il problema dell’efficacia della formazione, concetto che supera la differenza tra sapere e saper fare e introduce la differenza tra sapere (teorico e pratico) e la sua attuazione effettiva e conforme.

INAIL di fatto risolve la questione proponendo la ripetizione del test di verifica delle competenze a distanza di almeno 2 mesi dalla chiusura del corso di formazione quale strumento di verifica dell’efficacia. Come a dire che se ti ricordi la teoria dopo un certo periodo di tempo, allora conosci la materia e sai come comportarti. A questa conclusione si arriva analizzando l’intervento C-7:

L’azienda con meno di 50 lavoratori ha adottato o mantenuto una procedura per la verifica dell’efficacia della formazione, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, che comprenda test di verifica in forma scritta sia al termine di ciascun intervento formativo sia successivamente secondo una tempistica prestabilita dalla procedura in modo tale che la verifica successiva sia svolta non prima di 2 mesi rispetto alla verifica di fine corso“.

Nell'ambito dei sistemi di gestione (non solo quelli per la salute e la sicurezza), l'efficacia della formazione viene osservata da un altro punto di vista rispetto a quello di INAIL, partendo dal presupposto che una formazione è efficace se ha come risultato comportamenti adeguati dei lavoratori.

Nell’ambito dei sistemi di gestione (non solo quelli per la salute e la sicurezza), invece, la questione viene osservata da un altro punto di vista, partendo dal presupposto che una formazione è efficace se ha come risultato comportamenti adeguati dei lavoratori. Quindi non conta soltanto ricordarsi quel che i corsi hanno insegnato, ma anche che gli insegnamenti vengano messi in pratica.

La differenza tra l’approccio di INAIL e quello dei sistemi di gestione non è un dettaglio trascurabile, in quanto si traduce in attenzioni e azioni diverse. Nel primo caso si parte del presupposto che un lavoratore che sa poi fa, quindi se un lavoratore, sottoposto a nuovo test di verifica delle competenze, non lo supera, lo si deve sottoporre a una nuova azione formativa, a prescindere dall’adeguatezza della sua operatività. Nel secondo caso, invece, ci si ritiene che la priorità siano i comportamenti adeguati e si considera l’ipotesi che comportamenti non adeguati di un lavoratore possano essere determinati non solo da insufficienza o inadeguatezza delle sue competenze.

In pratica la verifica dell’efficacia della formazione sicurezza nell’ambito dei sistemi di gestione prevede di effettuare delle verifiche sul campo e di indagare la causa di eventuali anomalie: e se al lavoratore non venissero messe a disposizione le attrezzature adeguate per mettere in atto quanto ha imparato? E se il lavoratore conoscesse la teoria ma avesse fatto propri i principi su cui questa si basa? Del resto la sicurezza non è fatta solo di formazione, ma anche di organizzazione e di cultura.

La tutela della vita umana è un obiettivo ambizioso e l'ambizione richiede impegno.

L’approccio di INAlL ha il grande vantaggio dell’univocità, quindi riduce i tempi decisionali e fornisce una soluzione certa al problema, anche se non sono certa sia la più… efficace! Sul versante opposto l’approccio dei sistemi di gestione, che sottolinea l’importanza di una costante “dedizione alla causa”. L’osservazione che questo approccio richiede molto più tempo e risorse potrebbe essere un pregiudizio o persino una scusa: se non fossero tempo e risorse a mancare, ma solo la volontà? La tutela della vita umana è un obiettivo ambizioso e l’ambizione richiede impegno.

Gestire gli escavatori idraulici abilitati al sollevamento

Strumento principe per le attività di scavo, gli escavatori e i miniescavatori idraulici, gommati o cingolati, vengono utilizzati nel settore delle costruzioni anche per la movimentazione dei carichi. Vediamo più nel dettaglio quali sono i requisiti per una corretta gestione degli escavatori idraulici abilitati per il sollevamento.

Conosciuti come strumento principe per eseguire attività di scavo, di piccole o grandi dimensioni, gli escavatori e i miniescavatori idraulici, gommati o cingolati, vengono utilizzati nel settore delle costruzioni anche per la movimentazione dei carichi. Per l’utilizzo come apparecchio di sollevamento l’escavatore deve essere appositamente abilitato, ossia predisposto dal produttore, e deve essere gestito dall’utilizzatore nel rispetto delle previsioni dell’art. 71, comma 11 del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii., cioè denunciato a INAIL ai fini della sua immatricolazione e sottoposto a verifiche periodiche con frequenza annuale.

Vediamo più nel dettaglio quali sono i requisiti per una corretta gestione degli escavatori idraulici abilitati per il sollevamento.

Quali sono i requisiti tecnici?

Escavatori e miniescavatori idraulici con una capacità di sollevamento pari ad almeno 200 kg (o superiore) possono essere forniti dal costruttore di componenti tecniche specifiche per consentirne l’abilitazione e l’utilizzo come apparecchi di sollevamento. Nello specifico si tratta di:

  1. valvole di sicurezza che garantiscono che il braccio non cali o non cada improvvisamente anche in caso di spegnimento del mezzo;
  2. benne con gancio o gancio sul braccio penetratore come punto di attacco del carico (ex. asole delle fasce o campanella delle catene utilizzate per imbragare il carico);
  3. segnalatore acustico di instabilità;
  4. sistema (chiave o tasto) di inserimento della modalità di sollevamento dei carichi;
  5. decalcomania con tabella dei carichi all’interno della cabina.
Escavatori e miniescavatori idraulici con una capacità di sollevamento pari ad almeno 200 kg (o superiore) possono essere forniti dal costruttore di componenti tecniche specifiche per consentirne l'abilitazione e l’utilizzo come apparecchi di sollevamento.

È fondamentale avere chiaro che gli escavatori idraulici abilitati per il sollevamento non sono provvisti di sistemi di blocco, ossia quando si raggiungono situazioni limite di carico (e quindi di possibile instabilità con rischi per la sicurezza degli operatori) non intervengono sistemi tecnologici a limitare il movimento, ma si attiva il solo segnalatore acustico specifico, concepito per segnalare la situazione di pericolo al conduttore del mezzo. È quindi essenziale che quest’ultimo sia consapevole che solo la sua azione può riportare la situazione di lavoro in una condizione di piena sicurezza.

Quali sono gli adempimenti amministrativi?

Il primo passo nella gestione degli escavatori come apparecchi di sollevamento è la verifica della dichiarazione di conformità CE che deve riportare la spunta in corrispondenza della variante per il sollevamento dei carichi. In assenza di questo dettaglio è necessario richiedere al fornitore di provvedere alla revisione della dichiarazione, ma anche verificare che il mezzo fornito presenti le componenti tecniche richieste per la variante abilitata al sollevamento dei carichi.

Successivamente la sequenza delle fasi amministrative è analoga a quella della gestione di ogni apparecchio di sollevamento, ossia:

  1. denuncia di messa in servizio dell’apparecchio di sollevamento tramite l’applicativo CIVA del sito INAIL;
  2. richiesta di prima verifica con almeno 45 giorni di anticipo sulla scadenza dell’anno dalla denuncia, tramite CIVA;
  3. richiesta di verifica successiva alla prima con almeno 30 giorni di anticipo sulla scadenza dell’anno dalla verifica precedente.

La frequenza annuale della verifica è dettata dal settore di utilizzo, quello delle costruzioni.

Qual è la portata massima degli escavatori idraulici abilitati al sollevamento?

Analogamente a quanto accade per le specifiche relative allo scavo, un dato modello di escavatore ha una capacità di sollevamento variabile. Tale variabilità dipende in primo luogo dalla configurazione scelta, caratterizzata da una data larghezza del carro e dalla tipologia di braccio (monoblocco o con possibilità di diverse lunghezze di braccio penetratore).

Analogamente a quanto accade per le specifiche relative allo scavo, un dato modello di escavatore ha una capacità di sollevamento variabile. Tale variabilità dipende in primo luogo dalla configurazione scelta, caratterizzata da una data larghezza del carro e dalla tipologia di braccio (monoblocco o con possibilità di diverse lunghezze di braccio penetratore). Infine, la portata di una specifica configurazione di un modello di escavatore dipende:

  • dalla distanza del punto di attacco del carico dal baricentro del mezzo d’opera;
  • dalla posizione del braccio durante il sollevamento (parallela o perpendicolare al carro).

Per poter individuare la portata massima della specifica configurazione dell’escavatore è quindi necessario fare riferimento alla tabella dei carichi che il produttore deve applicare come decalcomania nella cabina e, talvolta, riporta anche nel manuale d’uso e manutenzione. Tale tabella individua delle posizioni tipiche e specifica la portata corrispondente dell’escavatore in chilogrammi o tonnellate. La portata massima sarà quindi corrispondente al valore più alto contenuto nella tabella.

In che cosa consiste la verifica periodica degli escavatori abilitati al sollevamento?

Che si tratti di prima verifica o delle successive, l’attività si sviluppa essenzialmente in tre fasi:

  1. verifica dei dati identificativi dell’escavatore (numero di matricola e matricola INAIL);
  2. verifica visiva per accertare la presenza della sicurezza sul gancio di attacco del carico e l’assenza di anomalie evidenti del mezzo;
  3. verifica funzionale con attacco di carico di peso prossimo alla portata massima per accertare che il segnalatore acustico funzioni una volta raggiunte le condizioni limite e che il sistema idraulico comprensivo delle valvole di sicurezza funzioni correttamente (quindi che il braccio non cada o semplicemente non cali quando il mezzo viene spento in condizione di carico).
L’articolazione del corso per operatori addetti alla conduzione di escavatori idraulici prevista dall’Accordo citato comprende un modulo specifico relativo alle operazioni di movimentazione carichi, pertanto non è necessaria alcuna formazione aggiuntiva rispetto a quella già prevista dalla normativa in vigore.

È necessaria una formazione aggiuntiva per gli operatori?

Gli escavatori rientrano nella categoria delle macchine movimento terra e nel campo di applicazione dell’Accordo Stato Regioni del 22 febbraio 2012,concernente l’individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori. L’articolazione del corso per operatori addetti alla conduzione di escavatori idraulici prevista dall’Accordo citato comprende un modulo specifico relativo alle operazioni di movimentazione carichi, pertanto non è necessaria alcuna formazione aggiuntiva rispetto a quella già prevista dalla normativa in vigore.

La gestione delle telecamere in azienda

La gestione delle telecamere in azienda deve rispettare i requisiti che il Garante della privacy ha dettagliato nel Provvedimento dell'8 aprile 2010.

Ti ho già parlato della necessità di richiedere specifica autorizzazione per l’installazione e l’utilizzo dei sistemi di videosorveglianza nel caso in cui sia presente in azienda anche un solo lavoratore e la loro presenza possa determinare, seppur solo indirettamente, il controllo a distanza dell’attività lavorativa. Ma la gestione delle telecamere in azienda deve rispettare anche altri requisiti che il Garante della privacy ha dettagliato nel Provvedimento dell’8 aprile 2010. Il provvedimento, nonostante sia antecedente all’entrata in vigore del Regolamento europeo 2016/679 (GDPR), continua a mantenere la sua validità.

Vediamo insieme quali sono gli elementi da verificare per una corretta gestione delle telecamere in azienda.

Luoghi di installazione

Dovendo rispettare il divieto di controllo a distanza dell’attività lavorativa, è vietata l’installazione di telecamere in azienda che abbiano unicamente tale finalità. In altre parole, nei luoghi come le aree ristoro o le mense e i punti di accesso con badge, ove la presenza delle apparecchiature di videosorveglianza avrebbe come unica ragion d’essere il controllo dei lavoratori (ex. la verifica del rispetto dell’orario di lavoro), è vietata l’installazione delle apparecchiature. L’unica eccezione è quella in cui si possa dimostrare che la localizzazione in tale aree sia essenziale al fine di garantire la tutela del patrimonio aziendale o la sicurezza del personale. In quest’ultimo caso è evidente la necessità di richiedere autorizzazione del sistema di videosorveglianza ai soggetti competenti, tenendo conto anche degli altri requisiti riportati di seguito.

Dovendo rispettare il divieto di controllo a distanza dell'attività lavorativa, è vietata l'installazione di telecamere in azienda che abbiano unicamente tale finalità.  In altre parole ci sono luoghi aziendali in cui l'installazione si può considerare vietata.

Caratteristiche tecniche

L’adeguatezza di un sistema di videosorveglianza rispetto alla gestione dei dati personali parte dalla scelta delle componenti fisiche e dei programmi informatici che devono presentare caratteristiche e configurazione tali da ridurre al minimo la raccolta e l’utilizzo di dati personali. Per esempio la scelta di un sistema che consenta di effettuare degli zoom oppure di modificare l’angolo di ripresa deve essere valutata e motivata e non deve essere ritenuta una scelta scontata e incontestabile. Allo stesso modo si dovrebbe valutare il posizionamento fisico dei dispositivi di registrazione e/o di accesso ai dati, che è preferibile si trovino fuori dalla portata di tutti.

Inoltre, i dati raccolti devono essere protetti per ridurre al minimo i rischi di distruzione, di perdita anche accidentale, di accesso non autorizzato, di trattamento non consentito o non conforme alle finalità della raccolta (come per esempio la trasmissione delle immagini). Questo significa:

  1. che il titolare del trattamento deve essere in grado di verificare chi può accedere alle immagini e controllarne gli accessi;
  2. che i soggetti incaricati del trattamento o i responsabili del trattamento devono essere in possesso di credenziali di autenticazione che permettano di effettuare esclusivamente le operazioni di competenza;
  3. che nel caso di sistemi configurati per la registrazione e conservazione delle immagini rilevate, deve essere esclusa la possibilità dei soggetti abilitati di visionare la ripresa e le immagini registrate e di effettuare operazioni di cancellazione o duplicazione;
  4. che il sistema deve essere in grado di cancellare le registrazioni, in forma automatica o per mezzo di precise misure organizzative, allo scadere del termine previsto.

Tempi di conservazione

La conservazione deve essere limitata a poche ore o, al massimo, alle ventiquattro ore successive alla rilevazione. Sono ammesse deroghe in relazione a:

  • festività;
  • chiusura di uffici;
  • necessità di rispondere a una specifica richiesta investigativa dell’autorità giudiziaria o di polizia giudiziaria.

In realtà il Garante ha previsto che si possano prevedere proroghe a tale termine sino al limite della settimana per casi specifici e motivati da ragioni tecniche o di sicurezza (ex. i mezzi di trasporto o le banche). Qualora si ritenesse di dover procedere a un ulteriore allungamento dei tempi di conservazione oltre la settimana, si deve infine sottoporre specifica richiesta di verifica preliminare al Garante stesso. Per quanto tale possibilità sia prevista, i casi in cui è stata a oggi presentata richiesta di verifica preliminare sono tutti riconducibili a realtà di grandi dimensioni e caratterizzate da un’utenza di larga scala (ex. compagnie di navigazione, brand di lusso e gestori autostradali).

Addetti e responsabili al trattamento

Il titolare o il responsabile devono nominare per iscritto tutte le persone fisiche incaricate del trattamento in quanto

  • autorizzate ad accedere ai locali dove sono situate le postazioni di controllo;
  • autorizzate a utilizzare gli impianti;
  • autorizzate, nei casi in cui sia indispensabile per gli scopi perseguiti, a visionare le immagini.

In relazione agli addetti al trattamento dei dati, il Garante ha previsto che:

  1. si debba trattare di un numero limitato di soggetti, soprattutto in caso di collaboratori esterni;
  2. si debbano individuare e definire diversi livelli di accesso in funzione delle specifiche mansioni attribuite ai singoli operatori, distinguendo per esempio chi può unicamente visionare le immagini da chi può effettuare ulteriori operazioni.

Informativa

Gli interessati devono essere sempre informati che stanno per accedere in una zona videosorvegliata. L'informativa è rappresentata da cartello specifico ma non solo.

Gli interessati devono essere sempre informati che stanno per accedere in una zona videosorvegliata, quindi il cartello recante l’indicazione di “area videosorvegliata”:

  • deve essere collocato prima del raggio di azione della telecamera, anche nelle sue immediate vicinanze e non necessariamente a contatto con gli impianti;
  • deve avere un formato e un posizionamento tali da essere chiaramente visibile in ogni condizione di illuminazione, anche quando il sistema di videosorveglianza sia eventualmente attivo in orario notturno;
  • può inglobare un simbolo che consenta di informare se le immagini sono solo visionate o anche registrate.

Il Garante ritiene auspicabile che l’informativa semplificata rappresentata dal cartello sia seguita da un testo completo di tutti gli elementi previsti dall’art. 12 del GDPR, disponibile agevolmente e senza oneri per gli interessati. In ogni caso il titolare, eventualmente per il tramite di un incaricato, è tenuto a fornire anche solo oralmente un’informativa adeguata.

Alcune risorse di approfondimento

Oltre al link diretto al Provvedimento del Garante dell’8 aprile 2010, riporto di seguito il link alle recenti linee guida del Comitato europeo per la protezione dei dati. Si tratta di un documento che affronta la questione della videosorveglianza in termini generali, quindi non solo in riferimento all’installazione di telecamere in azienda. Può essere utile a chi fosse interessato ad approfondire gli aspetti interpretativi sull’argomento della videosorveglianza nel suo complesso. Purtroppo sono disponibili solo in inglese…

Cosa significa rilevare le esigenze formative e come farlo

Rilevare le esigenze formative significa individuare i percorsi di formazione e addestramento necessari per garantire la competenza di una data persona nello svolgimento della sua attività e per mantenerla nel tempo. Ecco qualche consiglio su come fare.

La rilevazione delle esigenze formative è diventato il ritornello di molti, consulenti e organismi di controllo. La convinzione alla base di questa insistenza è che una persona formata sappia svolgere la propria attività in modo consapevole e responsabile, il che, soprattutto quando si parla di salute e sicurezza sul lavoro, significa che sa prevenire ogni possibile conseguenza negativa. In realtà formazione e consapevolezza non sono sinonimi, ma la prima è indubbiamente una via per poter raggiungere la seconda.

Che cosa significa rilevare le esigenze formative?

Significa individuare i percorsi di formazione e addestramento necessari per garantire la competenza di una data persona nello svolgimento della sua attività e per mantenerla nel tempo.

Significa quindi:

  • conoscere la formazione di cui sono in possesso i candidati/lavoratori;
  • individuare gli obblighi di legge che si applicano alla mansione specifica in termini di tipologia di corsi (ex. un diploma professionale, il cosiddetto patentino frigoristi o la comune formazione generale e specifica in materia di salute e sicurezza sul lavoro) e relativa frequenza di aggiornamento (triennale? Quinquennale? Non sono previsti obblighi di aggiornamento?);
  • individuare eventuali obblighi aggiuntivi definiti dall’azienda (ex. un’impresa può definire durata e frequenza di aggiornamento dei corsi di formazione più stringenti di quelli di legge ma, soprattutto, lo può fare nei casi in cui la normativa non definisce obblighi specifici o non fornisce indicazioni in merito);
  • verificare la corrispondenza tra la formazione dei candidati/ lavoratori e i requisiti di legge, tenendo conto anche della frequenza di aggiornamento prevista per legge;
  • definire un programma di formazione, quindi un documento che definisca quale personale deve frequentare un dato corso entro una scadenza definita.
Per rilevare le esigenze formative bisogna seguire solo 3 regole: archiviare la documentazione;
tenere sotto controllo le scadenze; mettere nero su bianco la programmazione dei corsi.

Come farlo?

Si devono seguire solo 3 regole:

  1. archiviare la documentazione che prova di quale formazione sia in possesso un dato lavoratore;
  2. tenere sotto controllo le scadenze;
  3. mettere nero su bianco la programmazione dei corsi da effettuare.

Il modo più efficace di archiviazione della documentazione di formazione prevede di procedere per singolo lavoratore, suddividendo la stessa per tipologia di corso e in ordine cronologico. Questo metodo richiede più impegno in fase iniziale, rispetto a una scansione cumulativa per tipologia di corso o solo per lavoratore, ma semplifica la consultazione da parte dell’azienda e anche di soggetti esterni (ex. i coordinatori per la sicurezza nei cantieri edili, gli organismi di controllo, i consulenti).

Non esiste un metodo infallibile e universale per gestire le scadenze. Tutto dipende dal numero di scadenze da monitorare e dalle preferenze di chi le deve tenere sotto controllo. Per esperienza posso dire che l’automatismo della gestione aumenta con la dimensione aziendale, così le piccole realtà tendono a usare carta e penna e, di anno in anno, riportano le scadenze sul calendario da scrivania; le realtà di medie dimensioni iniziano a caricare i dati su file Excel che consultano periodicamente; le realtà più grandi sfruttano gestionali aziendali o piattaforme online predisposte allo scopo, che possono anche inviare mail di avviso delle scadenze. Il mio consiglio è di partire da subito con uno strumento che sia facilmente migliorabile, quindi salterei la versione su carta e partirei direttamente da una versione informatizzata.

Non esiste un metodo infallibile e universale per gestire le scadenze, tutto dipende dal numero di scadenze da monitorare e dalle preferenze di chi le deve tenere sotto controllo.

Il programma di formazione, infine, deve avere alcuni elementi essenziali, ossia un elenco dei corsi a cui devono partecipare i lavoratori con associati i nominativi degli interessati, la data limite di erogazione del corso e, man mano che i corsi vengono effettuati, la data di effettiva esecuzione. Alcune imprese ritengono pratico specificare anche il soggetto presso il quale è stata fatta l’iscrizione e lo stato di avanzamento della formazione (ex. iscrizione da completare, iscrizione effettuata, data programmata). Altre lo suddividono per anno solare, per esempio predisponendo diversi fogli Excel, mentre altre procedono aggiungendo righe successive a una tabella inserita in un file di testo (Word o simili). Essenziale è conservare il documento che attesti l’avvenuta iscrizione al corso.

Tutte e tre queste attività devono essere effettuate con continuità, procedendo ad aggiornamenti continui, o comunque in funzione della variazione del personale, dell’approssimarsi delle scadenze e dell’erogazione dei corsi. La rilevazione delle esigenze formative accompagna l’attività aziendale nella sua quotidianità.

Le difficoltà e come affrontarle

Le difficoltà che si possono incontrare nella rilevazione delle esigenze formative sono essenzialmente tre:

  1. un lavoratore nuovo assunto dichiara di avere fatto un corso ma non consegna la documentazione;
  2. si dispone dell’attestato relativo all’aggiornamento di un dato corso, ma non di quello relativo al corso di formazione iniziale (ex. attestato di partecipazione al corso di aggiornamento di primo soccorso e non quello di partecipazione al corso iniziale);
  3. i soggetti che erogano la formazione e quelli che la verificano interpretano i contenuti dei corsi e gli obblighi di legge in modo diverso, con differenze a volte notevoli a livello territoriale.

Sono difficoltà oggettive che si può cercare di gestire ma che non si ha mai garanzia di risolvere positivamente.

Le difficoltà che si possono incontrare nella rilevazione delle esigenze formative sono essenzialmente tre. Sono difficoltà oggettive che si può cercare di gestire ma che non si ha mai garanzia di risolvere positivamente.

Mai accontentarsi di quanto viene dichiarato. Se quanto viene riferito non è supportato dalla documentazione necessaria (almeno un attestato di formazione con indicazione del contenuto del corso, durata e data del corso di formazione e nominativo del soggetto che l’ha tenuto) non si può considerare attendibile e si deve ripartire da zero, quindi far frequentare nuovamente il corso o il suo aggiornamento. Questo vale sia se non si riceve nessun attestato, sia se dispone dell’attestato di un corso di aggiornamento senza disporre dell’attestato di frequenza al corso iniziale. Prima di pensare al peggio, però, valutate di fare richiesta all’impresa presso la quale il lavoratore era occupato in precedenza oppure agli enti di formazione di riferimento o quelli indicati dal lavoratore stesso. A volte non si recupera l’attestato di partecipazione al corso ma una dichiarazione comprensiva di tutti i dati necessari e si ha così la prova della formazione di interesse.

La questione dell’interpretazione degli obblighi di legge prevede invece soluzioni meno standardizzabili. Il punto di partenza deve essere quello della convinzione: se si è consapevoli degli obblighi di legge e dei criteri di definizione delle frequenze di aggiornamento della formazione, allora bisogna essere disposti a sostenere e motivare la propria posizione. In questo caso un confronto diretto tra il soggetto che contesta la formazione o il suo aggiornamento e il consulente aziendale può consentire di appianare le divergenze o di individuare la soluzione operativa. Il secondo passo è quello di imparare dal confronto, dando per assodato che se più soggetti iniziano a seguire la stessa linea interpretativa, presto quella potrebbe prendere piede nel territorio e diventare una prassi riconosciuta, a prescindere da disposizioni di legge esplicite e definitive sull’argomento. In altre parole, una volta incontrato un ostacolo, valuta se non valga la pena aggiustare la tua linea interpretativa e avviare l’adeguamento della formazione aziendale.

Un approccio positivo resta la chiave del successo sul lungo termine.