La denuncia di malattia professionale

La denuncia di malattia professionale è un adempimento che viene richiesto da INAIL a seguito dell'emissione di un certificato di (presunta) malattia professionale.

Si tratta di un adempimento che viene richiesto da INAIL a seguito dell’emissione di un certificato di (presunta) malattia professionale da parte del dipartimento di medicina del lavoro della struttura sanitaria territoriale, o da parte di altro medico che abbia aderito a specifico accordo con INAIL e le rappresentanze sindacali.

La denuncia di malattia professionale è nella pratica un atto amministrativo di trasferimento di informazioni inerenti la vita lavorativa di uno specifico lavoratore e non equivale al riconoscimento della malattia professionale, ma può porre le basi per il riconoscimento e, quindi, deve essere effettuata con cura.

Che cos’è la malattia professionale?

Le patologie che siano direttamente ricollegabili all'esposizione prolungata a specifiche attività o ambienti lavorativi sono malattie professionali.

La condizione di salute di un lavoratore può risentire dell’attività lavorativa. Questo significa che, con il passare del tempo, l’esposizione agli agenti di rischio (ex. microclima, vibrazioni, rumore, movimenti ripetitivi degli arti superiore, movimentazione manuale dei carichi, sostanze cancerogene) può comportare delle conseguenze a livello fisico per il lavoratore, l’insorgere di patologie. Le patologie che siano direttamente ricollegabili all’esposizione prolungata a specifiche attività o ambienti lavorativi sono malattie professionali.

La correlazione tra patologia e attività lavorativa non è sempre certa, cioè resta in carico a INAIL verificare che la patologia diagnosticata sia riconducibile in modo univoco all’ambito lavorativo. La denuncia di malattia professionale è il momento in cui INAIL, attraverso un medico del lavoro incaricato, avvia la verifica per stabilire se esista o meno un legame di causa-effetto tra attività lavorativa e patologia.

Chi segnala il sospetto di malattia professionale?

In primo luogo può essere il medico competente, nell'ambito della sorveglianza sanitaria periodica, a ritenere che un lavoratore stia sviluppando una patologia connessa all'attività lavorativa.

In primo luogo può essere il medico competente, nell’ambito della sorveglianza sanitaria periodica, a ritenere che un lavoratore stia sviluppando una patologia connessa all’attività lavorativa. In quel caso allerterà il datore di lavoro del fatto che invierà il lavoratore a visita presso il dipartimento di medica del lavoro dell’azienda sanitaria territorialmente competente. Il dipartimento valuterà lo stato di salute e, nel caso confermasse il sospetto del medico competente, emetterà un certificato di sospetta malattia professionale.

In secondo luogo può essere il medico curante ad avanzare il sospetto e, in questo caso, per quanto il percorso per il lavoratore sia il medesimo del caso precedente, il datore di lavoro verrà a conoscenza della situazione solo nel momento in cui dovesse ricevere il certificato medico.

Il certificato in questione riporta la dicitura “certificato di malattia professionale” ma, di fatto, la malattia deve prima ricevere il riconoscimento esplicito di “professionale” da parte di INAIL per considerarsi effettiva. Il certificato può essere trasmesso al datore di lavoro dal lavoratore, dal dipartimento di medicina del lavoro o da INAIL: quale che sia il canale, il datore di lavoro deve procedere alla denuncia di malattia professionale entro 5 giorni dal ricevimento del certificato.

La denuncia

L'invio della denuncia di malattia professionale consiste in una procedura online, alla quale si accede attraverso l'area riservata del sito INAIL.

L’invio della denuncia di malattia professionale consiste in una procedura online, alla quale si accede attraverso l’area riservata del sito INAIL. Per evitare difficoltà è utile scaricare prima il manuale specifico e seguirlo passo passo, dopo una prima lettura generale per riuscire a orientarsi nel documento. In sintesi, il datore di lavoro deve riepilogare le attività svolte dal lavoratore presso la sua impresa, aggiungendo dati anagrafici e amministrativi.

INAIL, contestualmente alla richiesta di denuncia o a seguito della presentazione da parte del datore di lavoro, trasmette uno o più questionari differenziati in funzione dei fattori di rischio che sono considerati causa della patologia diagnosticata. Il datore di lavoro deve compilarli in ogni parte pertinente e allegare la documentazione richiesta, in genere relativa alla valutazione dei rischi o a valutazioni di dettaglio.

Il riconoscimento

In caso di riconoscimento della malattia professionale, il lavoratore avrà diritto a prestazioni di carattere economico, sanitario e riabilitativo erogate da parte di INAIL.

Sulla base dei dati forniti dal datore di lavoro attraverso i questionari, un medico del lavoro incarico da INAIL valuta l’effettiva correlazione della patologia all’attività lavorativa. L’esito della valutazione può essere quindi anche un mancato riconoscimento della malattia professionale.

In caso di riconoscimento, il lavoratore avrà diritto a prestazioni di carattere economico, sanitario e riabilitativo erogate da parte di INAIL, mentre sul fronte del datore di lavoro si osserva per la sua impresa una variazione del tasso medio di tariffa INAIL, quindi un aumento del premio assicurativo.

Il DPO, Data Protection Officer

La sigla DPO sta per Data Protection Officer ed equivale alla versione italiana Responsabile della Protezione dei Dati (RPD).

La sigla DPO sta per Data Protection Officer ed equivale alla versione italiana Responsabile della Protezione dei Dati (RPD).

Questa figura è obbligatoria solo in alcuni casi specifici:

  • quando il trattamento dei dati è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico (a eccezione delle autorità giurisdizionali che effettuano attività giurisdizionali);
  • quando le attività principali del titolare o del responsabile del trattamento consistono in trattamenti che per la loro natura, ambito di applicazione e/o finalità, richiedono il monitoraggio regolare e sistematico degli interessati su larga scala;
  • quando le attività principali del titolare o del responsabile del trattamento consistono nel trattamento, su larga scala, di categorie particolari di dati personali o di dati relativi a condanne penali, reati o a connesse misure di sicurezza.

Nei casi in cui la normativa (GDPR) non impone la designazione, è comunque possibile la nomina di un RPD per scelta volontaria e, nel caso di un gruppo di imprese o soggetti pubblici, è possibile nominare un unico DPO.

Chi può svolgere la funzione di DPO?

Il DPO può essere interno o esterno all’organizzazione, e svolgere altre funzioni, ma, al di là della scelta strategica, l'importante è che possieda competenze giuridiche, informatiche, di gestione del rischio e di analisi dei processi.

Il DPO può essere interno o esterno all’organizzazione, e svolgere altre funzioni, ma, al di là della scelta strategica, l’importante è che:

  1. possieda competenze giuridiche, informatiche, di gestione del rischio e di analisi dei processi;
  2. svolga il suo ruolo con indipendenza e senza conflitti di interesse, e questo significa che non può essere lui a decidere finalità e strumenti di trattamento dei dati personali e che il titolare o il responsabile del trattamento devono fornirgli le risorse necessarie per assolvere ai suoi compiti e accedere ai dati personali e ai trattamenti.

Non sono richieste attestazioni formali o l’iscrizione ad appositi albi professionali, anche se la partecipazione a master e corsi professionali sulle tematiche specifiche è un utile strumento per valutare il possesso di un livello adeguato di conoscenze.

La nomina di DPO deve essere formalizzata e il nominativo dell’incaricato, nonché la sua eventuale variazione e revoca, deve essere comunicata al Garante per la protezione dei dati personali attraverso specifica procedura online.

Quali sono i compiti del RDP?

Il responsabile della protezione dei dati è un facilitatore dell’osservanza delle disposizioni del GDRP.

Il responsabile della protezione dei dati è un facilitatore dell’osservanza delle disposizioni del GDRP. I suoi compiti comprendono:

  1. informare e svolgere attività di consulenza verso il titolare o il responsabile del trattamento e gli incaricati del trattamento degli obblighi derivanti dal GDPR e dalle altre norme relative alla protezione dei dati;
  2. sorvegliare sulla corretta gestione del trattamento in osservanza al GDPR e alle altre norme relative alla protezione dei dati, comprese l’attribuzione delle responsabilità, la sensibilizzazione e la formazione del personale che partecipa ai trattamenti e alle connesse attività di controllo;
  3. fornire un parere, se richiesto, in merito alla DPIA e sorvegliare sul suo svolgimento;
  4. cooperare con l’autorità di controllo rispetto alla quale funge da punto di contatto per questioni connesse al trattamento.

Vuoi approfondire la questione? Puoi scaricare le Linee guida sui responsabili della protezione dei dati (RPD) – WP243 adottate dal Gruppo di lavoro Art. 29.

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APVR: formazione e addestramento

Con la sigla APVR si fa riferimento agli apparecchi di protezione delle vie respiratorie.

Con la sigla APVR si fa riferimento agli apparecchi di protezione delle vie respiratorie. Il personale che li ha in dotazione deve essere formato e addestrato. Ma quanto dura la formazione e ogni quanto deve essere ripetuta?

APVR: apparecchi di protezione delle vie respiratorie

Per APVR si intendono (D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii., allegato VII):

  • apparecchi antipolvere, antigas e contro le polveri radioattive;
  • apparecchi isolanti a presa d’aria;
  • apparecchi respiratori con maschera per saldatura amovibile;
  • apparecchi e attrezzature per sommozzatori;
  • scafandri per sommozzatori.
Un primo elenco degli APVR è contenuto nell'allegato VII del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.

Formazione e addestramento per gli APVR

Il datore di lavoro deve garantire (art. 74, comma 4 del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.) che i lavoratori ricevano informazioni adeguate in merito all’utilizzo dei DPI in dotazione e anche formazione e addestramento.

L’addestramento, in particolare, è indispensabile per i DPI di III categoria e i dispositivi di protezione dell’udito (art. 74, comma 5, D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii.), e gli APVR rientrano nella prima casistica.

A questo si aggiunge il fatto che l’art. 79 comma 2-bis del D. L.vo 81/08 e ss.mm.ii. richiama la validità del DM 126/01 e che questo decreto ministeriale contiene nell’allegato 2 (punto 7.4 e seguenti) i riferimenti specifici alla formazione e all’addestramento per il personale addetto/incaricato all’uso degli APVR, escludendo gli apparecchi di immersione e quelli per alte quote e pressioni diverse da quelle atmosferiche.

L'addestramento è indispensabile per i DPI di III categoria e i dispositivi di protezione dell'udito, e gli APVR rientrano nella prima casistica.

Il testo è ripreso dalla norma UNI vigente al momento della stesura del decreto (UNI 10720:1998), poi revocata con la pubblicazione della UNI 529:2006, cui è seguita la pubblicazione della UNI 11719:2018. La sostanza però, per quanto riguarda formazione e l’addestramento non è mutata:

  1. è necessario fornire un’informazione e una formazione, sia teorica che pratica (addestramento), prima del primo utilizzo;
  2. è necessario ripetere l’informazione e la formazione a intervalli regolari, da definire in funzione dell’utilizzo effettivo, partendo dal presupposto che maggiore è l’utilizzo dei dispositivi minore può essere la frequenza (ex. nel caso degli autorespiratori, se l’uso è frequente non è necessario ripetere le prove pratiche, mentre, se l’uso è sporadico, le prove pratiche dovrebbero essere semestrali);
  3. la formazione e il suo aggiornamento devono essere affidati a personale competente;
  4. la durata della formazione dipende dal tipo, dalla frequenza e dallo scopo dell’utilizzo (ex. per gli autorespiratori non dovrebbe essere inferiore a 8 ore e può superare le 20 ore).
Prima del primo utilizzo degli APVR è necessario fornire un'informazione e una formazione, sia teorica che pratica (addestramento).

Attenzione agli ambienti confinati

La gestione delle attività in ambienti confinati e/o sospetti di inquinamento deve rispettare le disposizioni del DPR 177/11, che richiama gli articoli 66 e 121 del D. L.vo 81/08, i quali, a loro volta, richiamano l’utilizzo di DPI. In sostanza, quanto riepilogato sinora sull’utilizzo degli APVR resta valido anche in questo ambito per cui, in assenza di indicazioni di dettaglio su contenuti, durata e frequenza di aggiornamento della formazione necessaria per gli operatori in ambienti confinati, il datore di lavoro deve valutare l’idoneità della proposta formativa anche alla luce delle norme in materia di APVR, verificando  se il corso comprenda la formazione sui DPI di interesse e quali siano le relative caratteristiche.

MOG: modello di organizzazione, gestione e controllo

IL Decreto Legislativo 8 giugno 2001 n. 231 ha introdotto nell’ordinamento italiano la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati commessi nell’interesse o a vantaggio delle stesse, prevedendo contemporaneamente una via di difesa attraverso l’adozione e l'efficace attuazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) o Modello 231.

Il Decreto Legislativo 8 giugno 2001 n. 231 ha introdotto nell’ordinamento italiano la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati commessi nell’interesse o a vantaggio delle stesse, prevedendo contemporaneamente una via di difesa attraverso l’adozione e l’efficace attuazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) o Modello 231.

Chi sono le persone giuridiche?

I destinatari del Decreto (le persone giuridiche) sono:

  • gli enti forniti di personalità giuridica;
  • le società;
  • le associazioni anche prive di personalità giuridica;
  • gli enti pubblici economici;
  • gli enti privati concessionari di un pubblico servizio.

Che cos’è questa “nuova” responsabilità?

La responsabilità dell'ente sorge soltanto in occasione delle realizzazione di determinati tipi di reati da parte di soggetti legati a vario titolo all’ente, e solo nell’ipotesi che la condotta illecita sia stata realizzata nell’interesse o a vantaggio di esso.

Il Decreto 231 prevede che, in caso di commissione di uno dei reati previsti dal decreto stesso (ex. lesioni gravi o gravissime commesse in violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, gestione illecita di rifiuti, reati commessi nei rapporti con la pubblica amministrazione) da parte dei vertici dell’organizzazione o da personale subordinato (ex. dipendenti), sarà soggetto a sanzioni non solo la persona che ha commesso il reato, ma anche l’ente.

La responsabilità dell’ente sorge soltanto nel caso in cui la condotta illecita sia stata realizzata nell’interesse o a vantaggio di esso. Quindi non solo quando il comportamento illecito abbia determinato un vantaggio, patrimoniale o meno, per l’ente, ma anche qualora, pur in assenza di tale concreto risultato, il fatto-reato trovi ragione nell’interesse dell’ente.

L’elenco dei cosiddetti reati- presupposto, ossia dei reati la cui commissione può comportare l’applicazione del D. L.vo 231/01 e, quindi, la responsabilità dell’ente, è stato progressivamente ampliato.

Quali sono le sanzioni?

Il decreto 231 prevede sempre la sanzione pecuniaria, alla quale si aggiungono sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione della sentenza.

Si applica sempre la sanzione pecuniaria, che viene determinata in quote, in numero non inferiore a cento né superiore a mille. L’importo di una quota va da un minimo di euro 258.23 a un massimo di euro 1549.37. Questa sanzione viene definita in funzione delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente, della gravità del fatto, del grado di responsabilità e delle azioni messe in atto per eliminare o attenuare le conseguenze del reato e prevenire la commissioni di ulteriori illeciti.

Alla sanzione pecuniaria si aggiungono:

  1. le sanzioni interdittive (interdizione dell’esercizio dell’attività, sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione del reato, divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi);
  2. la confisca;
  3. la pubblicazione della sentenza.

Il MOG: esonero di responsabilità

L’art. 6 del Decreto 231 contempla l’esonero dell’ente da responsabilità se dimostra che, prima della commissione del fatto, fossero presenti determinate condizioni, diverse in base alla posizione ricoperta dai soggetti responsabili della commissione del reato stesso.

L’art. 6 del Decreto 231 contempla l’esonero dell’ente da responsabilità se dimostra che, prima della commissione del fatto, fossero presenti determinate condizioni, diverse in base alla posizione ricoperta dai soggetti responsabili della commissione del reato stesso.

Nel caso il reato sia stato commesso da un soggetto in posizione apicale, l’ente deve provare:

  1. di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) idoneo a prevenire la realizzazione degli illeciti penali previsti;
  2. di aver affidato il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo (Organismo di Vigilanza);
  3. che le persone che hanno commesso il reato lo abbiano fatto eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
  4. che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo a ciò preposto
Nel caso il reato sia stato commesso da soggetti sottoposti ad altri, l’ente deve provare di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi.

Nel caso il reato sia stato commesso da soggetti sottoposti ad altri, l’ente deve provare di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) idoneo a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi. L’ente, infatti, sarebbe responsabile qualora la commissione del reato fosse resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e di vigilanza, che è esclusa quando si verifica la condizione di un MOG efficacemente attuato.

L’efficacia del modello deve essere garantita attraverso:

  1. la verifica costante della sua corretta applicazione;
  2. l’adozione di un adeguato sistema sanzionatorio.

Com’è fatto un MOG?

Il Modello 231 o MOG è un insieme di documenti e attività.

Il Modello 231 è un insieme di documenti e attività con cui l’organizzazione:

  • individua i reati, tra quelli previsti dal Decreto 231, che possono essere attuati al proprio interno;
  • definisce le procedure operative volte a prevenire la loro commissione e “a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio“;
  • definisce le modalità con cui il modello stesso viene verificato periodicamente in modo autonomo e indipendente, prevedendo la nomina di un Organismo di Vigilanza;
  • definisce le sanzioni che l’ente applica a chi viola le regole definite dal MOG.

Potrei dire che è un upgrade dei sistemi di gestione, con i quali è buona cosa che si interfacci.

La formazione sulla privacy è obbligatoria?

Predisporre i documenti e nominare responsabili e incaricati al trattamento è sufficiente per rispettare il GDPR? No! Manca la formazione sulla privacy.

Predisporre le informative, il registro dei trattamenti, la valutazione d’impatto, nominare responsabili del trattamento e incaricati al trattamento è sufficiente per adempiere gli obblighi previsti dal GDPR? Non del tutto: manca la formazione sulla privacy!

Quali sono le caratteristiche della formazione privacy?

Non esistono riferimenti specifici in relazione a durata e contenuti della formazione in materia di privacy, né in merito alla frequenza di aggiornamento. La logica è quella di formare il personale che partecipa al trattamento dei dati (a partire da chi ha accesso permanente o regolare ai dati) e alle attività di controllo in funzione del tipo di dati trattati, dei trattamenti effettuati e delle misure di protezione messe in atto dal titolare del trattamento.

Non esistono riferimenti specifici in relazione a durata e contenuti della formazione in materia di privacy, né in merito alla frequenza di aggiornamento.

In termini di aggiornamento sarà la variazione di una di queste componenti (dati, trattamenti e sistemi di protezione) a richiedere di adeguare la formazione degli addetti, piuttosto che una variazione della funzione dell’addetto che comporti un diverso accesso ai dati o diverse modalità di trattamento e di gestione.

Come ogni altro aspetto della gestione privacy rispetto al GDPR, quindi, anche la formazione risulta una misura che il titolare deve definire in modo autonomo in funzione dei rischi per la protezione dei dati che ha individuato e valutato.

Chi dice che è obbligatoria?

La formazione può essere una misura organizzativa che il titolare ha definito come necessaria per garantire il rispetto delle procedure di trattamento e protezione dei dati che ha deciso di attuare. E questo sarebbe di per sé sufficiente a rendere obbligatoria l’attività di formazione.

Il GDPR ha previsto in maniera esplicita l'obbligo di formazione all'articolo 29.

Ma il GDPR ha previsto in maniera esplicita l’obbligo di formazione all’articolo 29:

Il responsabile del trattamento, o chiunque agisca sotto la sua autorità o sotto quella del titolare del trattamento, che abbia accesso a dati personali non può trattare tali dati se non è istruito in tal senso dal titolare del trattamento, salvo che lo richieda il diritto dell’Unione o degli Stati membri.

Detto n altre parole, l’articolo 29 dice che, con l’eccezione dei casi in cui il trattamento è previsto dal diritto dell’Unione Europea o degli Stati membri dell’Unione, tanto i responsabili quanto gli incaricati non sono autorizzati a trattare i dati personali se non sono stati formati (istruiti) dal titolare del trattamento.

Se ne può occupare il responsabile della protezione dei dati?

Il DPO è sicuramente una figura competente in materia. Il problema si pone più che altro rispetto alla finalità del suo compito.

La premessa essenziale è che il responsabile della protezione dei dati (o data protection officer – DPO) non è una figura obbligatoria in tutte le organizzazioni, ma è una “prerogativa” delle autorità pubbliche e delle organizzazioni che effettuano trattamenti su larga scala.

Il DPO è sicuramente una figura competente in materia, dato che uno dei requisiti per svolgere la funzione è quella della “conoscenza specialistica della normativa e delle prassi in materia di protezione dei dati“. Il problema si pone più che altro rispetto alla finalità del suo compito, che è informativa e di consulenza verso il titolare e il responsabile del trattamento, e di vigilanza in relazione agli aspetti di formazione del personale.

Sarebbe quindi opportuno che la formazione non venisse svolta da un soggetto qualificato come DPO all’interno della struttura per la quale svolge tale funzione.

Ma ci sono sanzioni?

L’obbligo di formazione sulla privacy non deve essere sottovalutato in quanto la violazione dell’art. 29 che la prevede è soggetta a sanzioni amministrative pecuniarie

L’obbligo di formazione non deve essere sottovalutato in quanto la violazione dell’art. 29 che la prevede è soggetta a sanzioni amministrative pecuniarie. La norma parla di numeri che fanno paura (sanzioni fino a 10 milioni di euro o, per le imprese, fino al 2 % del fatturato mondiale totale annuo dell’esercizio precedente, se superiore). L’ammontare effettivo dipende da una serie di fattori che sono oggetto di valutazione da parte del Garante (ex. natura, gravità e durata della violazione, carattere doloso o colposo della violazione). Questo non toglie il fatto che la mancata formazione in materia di privacy risulta una violazione sanzionabile .

La formazione di primo soccorso per il COVID-19

Ipotizzando che si verifichi una condizione di emergenza di primo soccorso (malore, incidente o infortunio) , in che modo lo stato di emergenza sanitaria legata al COVID-19 influisce sulle procedure di intervento?

Il Protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del COVID-19 nei cantieri è stato aggiornato in data 24 aprile, insieme agli altri protocolli. L’aggiornamento ha introdotto un dettaglio che, per quanto specifico per i cantieri, invita a porre attenzione a un tema che riguarda tutte le attività lavorative: influisce e, se sì, in che modo la condizione di emergenza sanitaria in uno scenario di emergenza lavorativa? Ipotizzando cioè che si verifichi una condizione di emergenza di primo soccorso (malore, incidente o infortunio) , in che modo lo stato di emergenza sanitaria legata al COVID-19 influisce sulle procedure di intervento?

Non è solo questione di DPI

Lo hanno insegnato le immagini televisive degli ultimi mesi e le continue attenzioni alle misure di igiene respiratoria: bisogna proteggersi dalle goccioline di saliva nebulizzata (droplet), sia per contatto diretto che indiretto, e questo aspetto non si può trascurare in una situazione di emergenza.

Al punto 5 “Dispositivi di protezione individuale”, il Protocollo per i cantieri recita:

“il datore di lavoro si assicura che in ogni cantiere di grandi dimensioni per numero di occupati (superiore a 250 unità) sia attivo il presidio sanitario e, laddove obbligatorio, l’apposito servizio medico e apposito pronto intervento; per tutti gli altri cantieri, tali attività sono svolte dagli addetti al primo soccorso, già nominati, previa adeguata formazione e fornitura delle dotazioni necessarie con riferimento alle misure di contenimento della diffusione del virus COVID-19″.

Due sono in pratica le questioni che si devono affrontare:

  1. adeguamento della formazione;
  2. fornitura di “strumenti”.

Ma in che modo? Quali strumenti?

Partiamo dalle dotazioni

Non ci sono indicazioni di dettaglio nei protocolli, ma le dotazioni alle quali è immediato pensare sono tre: schermo protettivo del viso; ambu (o pallone autoespandibile); guanti in lattice, in doppio strato (due paia sovrapposti).

Lo hanno insegnato le immagini televisive degli ultimi mesi e le continue attenzioni alle misure di igiene respiratoria: bisogna proteggersi dalle goccioline di saliva nebulizzata (droplet), sia per contatto diretto che indiretto, e questo aspetto non si può trascurare in una situazione di emergenza.

Non ci sono indicazioni di dettaglio nei protocolli, ma le dotazioni alle quali è immediato pensare sono tre:

  1. schermo protettivo del viso;
  2. ambu (o pallone autoespandibile);
  3. guanti in lattice, in doppio strato (due paia sovrapposti).

La formazione di primo soccorso per il COVID-19

Si potrebbe forse iniziare a pensare di integrare la formazione di primo soccorso con gli elementi che ci sono divenuti famigliari grazie all'emergenza sanitaria?

Mancano riferimenti precisi per le dotazioni e anche dettagli sulla formazione richiesta per utilizzarle. Sino a fine maggio anche la sola parola “formazione” stonava rispetto alla previsione di sospensione e annullamento di ogni evento interno e attività di formazione in azienda previsti dagli stessi Protocolli sicurezza COVID.

Immediato pensare alla formazione on the job, quindi a interventi spesso individuali e in contemporanea all’esecuzione dell’attività lavorativa, senza porsi troppi problemi sulla durata per concentrarsi invece sulla sostanza: il tempo necessario a comunicare e far comprendere quali accorgimenti devono adottare gli addetti al primo soccorso e come devono utilizzare i dispositivi “aggiuntivi”.

Mancano riferimenti precisi per le dotazioni di primo soccorso richieste per l'emergenza COVID e mancano anche dettagli sulla formazione richiesta per utilizzarle.

Nelle ultime settimane, però, le Regioni, secondo tempistiche definite nelle relative ordinanze (QUI quella della Lombardia e QUI quella del Veneto), hanno “riaperto le porte” alla formazione in aula. A questo si aggiunge la considerazione che, al di là della definizione formale di stato di emergenza a oggi in essere sino al 31 luglio, non è possibile prevedere se il termine sia da considerarsi definitivo né ritenere che il rischio scompaia in modo improvviso. Oltre al fatto che le situazioni di emergenza di primo soccorso non riguardano esclusivamente i cantieri, ma ogni attività lavorativa.

Si potrebbe forse iniziare a pensare di integrare la formazione di primo soccorso con gli elementi che ci sono divenuti famigliari grazie all’emergenza sanitaria? Eventualmente iniziando a integrarli nei moduli di aggiornamento che dovranno essere programmati (o riprogrammati dopo il lockdown) nei prossimi mesi.

Soggetti fragili e suscettibili al COVID-19

L'individuazione dei soggetti cosiddetti fragili o suscettibili al COVID-19 è di competenza esclusiva del medico competente, unico soggetto in possesso delle informazioni anagrafiche e anamnestiche per valutare se un dato lavoratore sia da considerarsi o meno fragile in relazione al rischio di infezione da COVID-19.

Ci sono alcuni termini che sono divenuti molto famigliari ai datori di lavoro negli ultimi mesi: informazione ai lavoratori, riorganizzazione di spazi e turni di lavoro, smart working, mascherine chirurgiche ed FFP2/FFP3, pulizia e sanificazione

L’emergenza sanitaria connessa alla diffusione del COVID-19 e la necessità di riprendere le attività di lavoro ha richiesto di mettere in discussione abitudini consolidate. Anche il medico competente, a volte lasciato ai margini, è tornato a essere centrale: i protocolli sicurezza hanno sottolineato l’importanza della sorveglianza sanitaria quale misura di prevenzione per intercettare possibili casi di contagio e momento in cui il medico del lavoro, in virtù della competenza specifica può contribuire alla formazione e all’informazione dei lavoratori in relazione al “rischio COVID”.

I protocolli sicurezza hanno sottolineato l'importanza della sorveglianza sanitaria quale misura di prevenzione per intercettare possibili casi di contagio e momento in cui il medico del lavoro, in virtù della competenza specifica  può contribuire alla formazione e all'informazione dei lavoratori in relazione al "rischio COVID".

Il ruolo del medico competente in relazione all’attuazione dei protocolli sicurezza per il contenimento dei contagi da COVID-19 è importante però anche per altri due elementi: il medico competente deve sottoporre a visita il personale che rientra al lavoro dopo aver contratto l’infezione da COVID-19 (previa negativizzazione del tampone) e deve provvedere a identificare e segnalare al datore di lavoro situazioni di particolare fragilità, anche in relazione all’età, del personale, perché possa provvedere alla loro tutela . Ma in pratica che cosa significa?

Chi sono i soggetti fragili e suscettibili al COVID-19?

L’individuazione dei soggetti cosiddetti fragili o suscettibili al COVID-19 è di competenza esclusiva del medico competente, unico soggetto in possesso delle informazioni anagrafiche e anamnestiche per valutare se un dato lavoratore sia da considerarsi o meno fragile in relazione al rischio di infezione da COVID-19. A titolo esemplificativo sono considerati fragili i soggetti di età superiore ai 55 anni e/o immunodepressi, ipertesi, diabetici.

L'emergenza sanitaria connessa alla diffusione del COVID-19 e la necessità di riprendere le attività di lavoro ha richiesto di mettere in discussione abitudini consolidate. Anche il medico competente, a volte lasciato ai margini,  è tornato a essere centrale.

Come gestire questi lavoratori?

Una volta che il medico ha provveduto alla loro individuazione, si rende necessario un confronto con il datore di lavoro e l’RSPP al fine di valutare la compatibilità della fragilità con le condizioni di lavoro e la necessità di mettere in atto misure di prevenzione e protezione aggiuntive. Queste ultime sono volte in primo luogo a favorire un maggiore distanziamento dagli altri lavoratori e una maggiore protezione in caso di attività da svolgere a distanza inferiore al metro, come l’utilizzo di una visiera protettiva paraschizzi o l’utilizzo congiunto di occhiali protettivi e mascherina FFP2 o FFP3 (escludendo l’uso di quelle chirurgiche), oltre all’obbligo di indossare guanti monouso.

La valutazione delle misure specifiche deve essere oggetto di confronto tra il datore di lavoro e il medico competente, eventualmente consultando l’RSPP. Le misure individuate devono essere poi oggetto di specifica informativa al lavoratore interessato, al quale è opportuno richiedere l’impegno espresso al rispetto di quanto comunicato.

Una volta che il medico ha provveduto a individuare i soggetti fragili e suscettibili al COVID-19, si rende necessario un confronto con il datore di lavoro e l'RSPP al fine di valutare la compatibilità della fragilità con le condizioni di lavoro e la necessità di mettere in atto misure di prevenzione e protezione aggiuntive.

Tutela della privacy dei lavoratori fragili

I protocolli sicurezza COVID fanno esplicito riferimento alla necessità di garantire la tutela della privacy dei lavoratori cosiddetti fragili. Questo significa che il datore di lavoro non deve essere messo a conoscenza delle ragioni per cui un dato lavoratore sia da considerarsi fragile, ma ciò non toglie il diritto del lavoratore di ricevere dal medico competente tutti i chiarimenti in merito alla sua condizione che ritenesse opportuni.

L’informativa trattamento dati: finalità e contenuti

L'informativa sul trattamento dei dati personali è lo strumento attraverso il quale il titolare del trattamento, il soggetto che raccoglie e utilizza i dati, fornisce a chi li cede, l'interessato, i dettagli relativi all'utilizzo dei suoi dati e lo informa dei suoi diritti.

L’informativa sul trattamento dei dati personali è lo strumento attraverso il quale il titolare del trattamento, il soggetto che raccoglie e utilizza i dati, fornisce a chi li cede, l’interessato, i dettagli relativi all’utilizzo dei suoi dati e lo informa dei suoi diritti. Non è invece lo strumento attraverso il quale l’interessato esprime il consenso al trattamento dei dati, ma l’informativa può essere utilizzata anche con questa finalità.

Ma quali sono gli elementi imprescindibili dell’informativa al trattamento dei dati personali? Come va fornita all’interessato?

Contenuti minimi dell’informativa

Il GDPR definisce agli artt. 13 e 14 quali informazioni devono essere fornite all'interessato in relazione al trattamento dei suoi dati, anche al fine di garantire correttezza e trasparenza del trattamento stesso.

Il GDPR definisce agli artt. 13 e 14 quali informazioni devono essere fornite all’interessato in relazione al trattamento dei suoi dati, anche al fine di garantire correttezza e trasparenza del trattamento stesso. I due articoli operano una distinzione tra l’informativa da fornire all’interessato in caso di raccolta dati presso di lui (in sua presenza e con lui come fonte) e di raccolta dati non ottenuti presso di lui, quindi ricavati in sua assenza e da altre fonti che, per altro, devono essere specificate nell’informativa.

Due sono le differenze:

  1. il momento in cui l’informativa deve essere presentata all’interessato, che deve coincidere con il momento della raccolta dati quando questi sono ottenuti dall’interessato e presenta tempistiche differenti in caso contrario;
  2. solo nel caso di dati non ottenuti presso l’interessato si devono specificare anche quali siano le categorie di dati oggetto di trattamento.

Ho riassunto in una tabella comparativa, che potete scaricare QUI, i contenuti delle due informative, evidenziandone le differenze, anche in termini di tempistiche di presentazione all’interessato.

Altre caratteristiche dell’informativa al trattamento dati

Non è sufficiente predisporre il documento per adempiere all'obbligo di informazione verso l'interessato, ma bisogna strutturare il documento in modo che sia conciso, comprensibile e facilmente accessibile.

Non è sufficiente predisporre il documento per adempiere all’obbligo di informazione verso l’interessato, ma bisogna:

  1. strutturare il documento in modo che sia conciso, trasparente, intelligibile (comprensibile) e facilmente accessibile;
  2. utilizzare un linguaggio semplice e chiaro, in particolare nel caso di informazioni destinate ai minori.

L’informativa può essere in formato cartaceo o elettronico e, “se richiesto dall’interessato, le informazioni possono essere fornite oralmente, purché sia comprovata con altri mezzi l’identità dell’interessato“, il che significa che bisogna comunque essere in grado di dimostrare che l’informativa è stata resa all’interessato, quindi è buona cosa richiedere la sottoscrizione di un documento che la contenga, anche nel caso in cui il relativo contenuto sia stato riferito a voce.

Sottoscrizione dell’informativa e consenso al trattamento

L'informativa al trattamento dati non è lo strumento attraverso il quale l'interessato esprime il consenso al trattamento dei dati, ma può essere utilizzata anche con questa finalità.

Condizione indispensabile per poter effettuare un trattamento dei dati personali è che lo stesso sia lecito, ossia basato su uno dei criteri dell’art. 6 del GDPR. La norma individua 6 condizioni alternative perché il trattamento possa dirsi lecito:

  • l’interessato ha espresso il consenso al trattamento;
  • il trattamento è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte o all’esecuzione di misure precontrattuali adottate su sua richiesta;
  • il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento;
  • il trattamento è necessario per la salvaguardia degli interessi vitali dell’interessato o di un’altra persona fisica;
  • il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
  • il trattamento è necessario per il perseguimento del legittimo interesse del titolare del trattamento o di terzi (a condizione che non prevalgano gli interessi o i diritti e le libertà fondamentali dell’interessato).
Il titolare, se il trattamento risponde a uno dei criteri diversi dal consenso, può procedere al trattamento anche in assenza di consenso dell'interessato, ma questo non lo svincola dall'obbligo di fornire a quest'ultimo le informazioni previste dagli artt. 13 e 14 del GDPR.

Questo significa che il titolare, se il trattamento risponde a uno dei criteri diversi dal consenso, può procedere al trattamento anche in assenza di consenso dell’interessato, ma questo non lo svincola dall’obbligo di fornire a quest’ultimo le informazioni previste dagli artt. 13 e 14 del GDPR. In altre parole:

  1. la sottoscrizione dell’informativa trattamento dati non coincide necessariamente con l’espressione di un consenso da parte dell’interessato;
  2. qualora la liceità del trattamento dipenda dal consenso dell’interessato, allora è necessario che tale consenso venga espresso e che il titolare del trattamento sia in grado di dimostrare che l’interessato lo abbia fatto. Considerato che è possibile raccogliere il consenso nell’ambito di una “dichiarazione scritta che riguarda anche altre questioni“, allora può essere pratico inserire la clausola del consenso nell’informativa sul trattamento dei dati, accertandosi però che la richiesta sia “chiaramente distinguibile dalle altre materie“, comprensibile, facilmente accessibile e presentata con linguaggio semplice e chiaro.

Informazione COVID-19: obblighi, dubbi e soluzioni

L'informativa COVID-19 riguarda tutte le misure adottate per attuare i Protocolli sicurezza.

I Protocolli per il contenimento della diffusione del coronavirus negli ambienti di lavoro hanno disposto la sospensione dell’attività formativa in modalità in aula, ma richiedono che i lavoratori siano informati in merito a diversi aspetti. Andando a fondo di alcune questioni (vedi per esempio alla voce “pulizia e sanificazione” e “primo soccorso nei cantieri edili”) la sospensione della formazione può risultare però difficilmente gestibile. Faccio qualche premessa e poi arrivo al sodo, come sempre con proposte operative.

Stop formazione in aula

Le associazioni di categoria si stanno “battendo” per far ripartire la formazione. Intanto però tutto è fermo, o meglio i Protocolli per il contenimento della diffusione del coronavirus negli ambienti di lavoro prevedono la sospensione dell’attività formativa in modalità in aula senza previsioni di date per un ritorno alla normalità su questo versante.

Certo si può pensare di erogare parte della formazione in videoconferenza, ma ci sono attività che prevedono moduli pratici che non è possibile svolgere nemmeno con questo canale. E lo stesso vale per l’addestramento, per lo meno se non declinato individualmente.

I vincoli di accesso ai luoghi di lavoro e le misure di igiene da adottare per contenere la diffusione di COVID-19 devono essere adeguatamente comunicati.

Informazione COVID-19

Tutte le misure adottate per dare attuazione ai contenuti dei Protocolli devono però essere oggetto di informative specifiche:

  1. sui vincoli di accesso ai luoghi di lavoro e sulle misure di igiene;
  2. sulle modalità di collaborazione con le autorità (non ci si reca in pronto soccorso, ma si chiamano i numeri verdi regionali o il 1500 o il proprio medico curante e si rispettano le indicazioni ricevute che impongano la quarantena o meno);
  3. sulla modalità di pulizia e sanificazione e sul corretto utilizzo dei prodotti chimici richiesti per queste attività;
  4. sull’utilizzo corretto dei DPI (come si indossano le mascherine? Ma anche come e quando utilizzare i guanti, infilarli, sfilarli e cestinarli) e sul loro smaltimento (rifiuti sanitari o rifiuti indifferenziati?);
  5. su come distribuirsi sui mezzi aziendali e utilizzare gli spazi aziendali, di qualunque natura;
  6. sull’obbligo di visita medica al rientro dalla malattia, se si è conclusa con l’esecuzione di un tampone da parte di ATS…
Per garantire l'informazione COVID-19 diventa essenziale esporre materiale informativo nelle bacheche aziendali.

La soluzione sta:

  • nell’appendere cartelli e infografiche, eventualmente attingendo a siti istituzionali (ex. World Health Organization, CNCPT, Ministero della salute, ATS);
  • nell’inviare e-mail al personale che ha a disposizione un indirizzo aziendale e, ovviamente, a fornitori e visitatori prima del loro accesso;
  • nel predisporre opuscoli informativi da consegnare (magari insieme alle buste paga) a ogni singolo lavoratore, rispettando rigorosamente tutte le misure di igiene (distanza, mascherine e guanti e igiene delle mani);
  • l’Ordinanza di Regione Lombardia n. 547 del 17 maggio 2020 introduce anche l’ipotesi di utilizzo del vecchio SMS per ricordare ai lavoratori l’obbligo di sottoporsi alla misurazione della temperatura (che sì, in Lombardia è obbligatoria per tutti i datori di lavoro).

In alcuni casi, però, l’informazione scivola esplicitamente nella formazione…

Formazione COVID-19

L’aspetto della formazione non risulta eludibile neppure nel caso in cui il datore di lavoro decida di affidare a lavoratori dipendenti le attività di pulizia e sanificazione contro il COVID-19.

Nel caso dei Protocolli per i cantieri edili il legislatore si lascia sfuggire che “il datore di lavoro si assicura che in ogni cantiere di grandi dimensioni per numero di occupati (superiore a 250 unità) sia attivo il presidio sanitario e, laddove obbligatorio, l’apposito servizio medico e apposito pronto intervento; per tutti gli altri cantieri, tali attività sono svolte dagli addetti al primo soccorso, già nominati, previa adeguata formazione e fornitura delle dotazioni necessarie con riferimento alle misure di contenimento della diffusione del virus COVID-19”.

L’aspetto della formazione non risulta eludibile neppure nel caso in cui il datore di lavoro decida di affidare a lavoratori dipendenti le attività di pulizia e sanificazione: ormai unanime in questo caso la posizione che dice che l’integrazione del DVR aziendale diventa necessaria e, di conseguenza, come non integrare la formazione del personale?

Con il divieto di formazione in aula vigente, chiedersi come procedere in questi casi è del tutto legittimo. La formazione a distanza richiede organizzazione e procedere individualmente risulta troppo dispendioso in termini di tempo. La risposta in questo caso può essere la cosiddetta “formazione on the job“, quindi quella formazione erogata senza fermare le attività produttive, sfruttando al contrario le attività programmate per fornire competenze e consentire l’esercitazione del personale.

Con il divieto di formazione in aula vigente, chiedersi come procedere in questi casi è del tutto legittimo. La risposta in questo caso può essere la cosiddetta "formazione on the job".

Non molto diversa dalla formazione individuale, ha però il vantaggio di ridurre le problematiche organizzative sia nell’interfaccia formatore- discente (non serve verificare la disponibilità degli strumenti informativi e la copertura della connessione) sia in termini operativi (non si influisce sulla composizione delle squadre di lavoro, sull’organizzazione dei trasporti o sui turni), richiedendo un adattamento maggiore da parte del formatore.

Ma? Te lo aspettavi il “ma”, vero? Richiede una buona disponibilità di spesa da parte del datore di lavoro perché il formatore viene impegnato per n volte, dove n è il numero di turni e/o luoghi di lavoro del personale da formare, al contrario di quanto accade nella formazione in aula in cui l’impegno del docente è confinato in una durata definita. Considerato però che si tratta di attività formative “di integrazione” della formazione già in possesso del personale e per le quali non vi sono vincoli legislativi di durata, si può pensare di strutturare il percorso bilanciando le esigenze in gioco (formazione efficace, costo e guadagno).

Pulizia e sanificazione secondo il Protocollo COVID-19

Il Protocollo del 24 aprile e le sue declinazioni di settore parlano in diversi punti delle attività di pulizia e sanificazione.

Il Protocollo del 24 aprile e le sue declinazioni di settore parlano in diversi punti delle attività di pulizia e sanificazione senza però fornire indicazioni di dettaglio in merito ai soggetti autorizzati a svolgere tale attività e alle modalità operative, se non il richiamo alla circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute.

Alcune indicazioni utili per comprendere meglio in che cosa consistano queste attività e quali siano i soggetti che possono svolgerle, arrivano dalla provincia di Bergamo, dove è stato emanato in data 5 maggio un Protocollo territoriale integrativo del protocollo nazionale del 24 aprile 2020.

Protocollo territoriale integrativo della provincia di Bergamo

Il corpo principale del documento in questione contiene una “proposta applicativa del protocollo nazionale“, ossia una declinazione di maggiore dettaglio delle disposizioni del Protocollo del 24 aprile.

Alcune indicazioni utili per comprendere meglio in che cosa consistano pulizia e sanificazione e quali siano i soggetti che possono svolgerle, arrivano dalla provincia di Bergamo, dove è stato emanato in data 5 maggio un Protocollo territoriale integrativo del protocollo nazionale del 24 aprile 2020.

Rispetto al tema di pulizia e sanificazione, il Protocollo territoriale integrativo fornisce

  1. definizioni
  2. indicazioni operative

che rendono meglio comprensibile l’attività, la sua organizzazione e la modalità di esecuzione.

Inoltre, sulla base di questo Protocollo, ATS Bergamo e l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Bergamo hanno predisposto una check list di verifica che rende evidenti gli elementi che gli enti di controllo potranno verificare in caso di sopralluogo.

La check list viene citata anche nei siti di altri enti territoriali lombardi, per cui è ragionevole pensare che rappresenti una linea guida anche al di fuori della provincia di Bergamo.

La pulizia

Per la pulizia, il Protocollo integrativo territoriale prevede la possibilità che i singoli lavoratori svolgano un ruolo centrale, ossia possano essere incaricati della pulizia della propria postazione di lavoro all'inizio e/o alla fine del turno.

La pulizia (o detersione) consiste nella rimozione dello sporco visibile (ad es. materiale organico o inorganico) da oggetti e superfici e di solito viene eseguita manualmente o meccanicamente usando acqua con detergenti o prodotti enzimatici. Una pulizia accurata è essenziale prima della disinfezione e della sterilizzazione poiché i materiali inorganici e organici che rimangono sulle superfici interferiscono con l’efficacia di questi processi.

Per questa attività, il Protocollo integrativo territoriale prevede la possibilità che i singoli lavoratori svolgano un ruolo centrale, ossia possano essere incaricati della pulizia della propria postazione di lavoro all’inizio e/o alla fine del turno. Pertanto resterebbe in carico al datore di lavoro:

  1. l’individuazione dei prodotti e delle modalità di esecuzione della pulizia (ex. ricorso a panni inumiditi, divieto di utilizzare getti d’acqua ad alta pressione, utilizzo di detergenti conformi al Regolamento CE n.648/2004);
  2. la fornitura dei DPI idonei;
  3. l’informazione/ addestramento al lavoratore.

La pulizia, così come la sanificazione, deve essere registrata.

La sanificazione

La sanificazione, dice il Protocollo integrativo della provincia di Bergamo, è la detersione con successiva disinfezione.

L’attività di sanificazione riguarda il “complesso dei procedimenti ed operazioni atti a rendere sani determinati ambienti mediante l’attività di pulizia e/o disinfezione e/o disinfestazione, ovvero mediante il controllo ed il miglioramento delle condizioni del microclima”.

Si tratta, dice ancora il Protocollo integrativo territoriale, di interventi di detersione e di successiva disinfezione, e rimanda alla circolare n. 5443 del 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute per individuare i prodotti da utilizzare per la disinfezione (ipoclorito di sodio 0,1% – 0,5%, etanolo 62% – 71% e perossido di idrogeno 0,5%).

Il questo caso il Protocollo integrativo territoriale non contiene indicazioni in merito ai soggetti che possono svolgere tale attività, ma le stesse si possono ricavare dalla check list di ATS- ITL Bergamo. Il documento prevede che l’impresa debba essere in grado di fornire “elenco delle date delle sanificazioni effettuate sui luoghi di lavoro con descrizione delle modalità operative e dei prodotti utilizzati e, qualora affidata a ditta esterna, eventuale copia della certificazione rilasciata dalla ditta sanificatrice“.

Non è quindi obbligatorio l’affidamento all’esterno dell’attività di sanificazione, ma gli organi di vigilanza richiederanno di conseguenza che l’attività sia valutata e formalizzata nel DVR (sez. 4 della check list di ATS – ITL Bergamo).

Non è obbligatorio l'affidamento all'esterno dell'attività di sanificazione, ma gli organi di vigilanza richiederanno di conseguenza che l'attività sia valutata e formalizzata nel DVR (sez. 4 della check list di ATS - ITL Bergamo).

Inevitabile a questo punto procedere, come nel caso della pulizia, alla definizione dei prodotti da utilizzare, delle procedure di lavoro (ex. l’importanza dell’aerazione), alla fornitura di DPI e all’informazione e addestramento del lavoratore, soprattutto nel caso in cui quest’ultimo si trovasse a svolgere una nuova mansione.

Requisiti delle imprese di sanificazione

Concludo con un ultimo riferimento utile del Protocollo integrativo territoriale, ossia il richiamo alle linee guida di A.N.I.D. (Associazione nazionale delle Imprese di Disinfestazione) intitolate “Buone prassi igieniche nei confronti di SARS CoV 2“.

Oltre alle indicazioni professionali sulle modalità tecniche e operative per organizzare l’attività di sanificazione in azienda, il sito dell’Associazione dispone di un archivio per individuare le imprese associate, quindi certamente in possesso dei requisiti per svolgere l’attività specifica su incarico di terzi.